Simone Weil e la guerra

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Gianni Castagnello

Simone Weil è una delle figure intellettuali più interessanti della prima metà del Novecento. Nata nel 1909 a Parigi, morì in Inghilterra nel 1943.

Proveniente da una famiglia agiata della borghesia ebraica, diplomata all’École normale supérieure nel 1931, per qualche anno insegna filosofia nei licei  ma il bisogno di essere dentro la realtà del suo tempo e di condividere la vita delle persone più svantaggiate, la spinge a lavorare  come operaia alla Renault per alcuni mesi. Il fisico non la sorregge e deve rinunciare, ma non esita nell’estate del ‘36 ad unirsi ai repubblicani spagnoli per combattere una guerra che le sembrava fosse di contadini affamati che chiedono la terra contro i proprietari terrieri e i loro complici. Sarà un’esperienza breve, interrotta da un’incidente che le occorre con una pentola d’acqua bollente. La ricorda in una lettera scritta tempo dopo  a George Bernanos del quale aveva letto I grandi cimiteri sotto la luna (1938), e con il quale condivide la perplessità morale di fronte alla spietatezza della guerra, anche combattuta dalla parte che lei riteneva giusta: “A Barcellona si uccidevano in media, sotto forma di spedizioni punitive, una cinquantina di uomini per notte. […] Non ho mai visto, né tra gli spagnoli, e nemmeno tra i francesi, venuti per combattere o per fare un giro … non ho mai visto nessuno, nemmeno in confidenza, esprimere repulsione, disgusto o solo disapprovazione per il sangue inutilmente versato.”

Già nel 1933 Simone Weil considerò che il trionfo di Hitler in Germania apriva la possibilità di un nuovo conflitto europeo ma giudicava assurda “una lotta antifascista che assumesse la guerra come strumento d’azione” (Riflessioni sulla guerra). Andò in Spagna perché sentiva l’imperativo interiore di non sottrarsi al rischio e alla sofferenza ma, con  coraggio e libertà di pensiero, considerando il cumulo di tragedie che la guerra porta, il male che moltiplica e riproduce nel tempo, e non prevedendo la crudeltà della dominazione nazista, formulò l’idea che, per scongiurare la guerra, si potesse anche accettare un predominio politico della Germania in Europa.

Però, quando i nazisti conquistarono Praga, si rese conto di dover rinunciare al suo pacifismo assoluto: “Dopo una lunga lotta interiore, ho deciso in me stessa che, malgrado le mie inclinazioni pacifiste, il primo dei doveri diveniva ai miei occhi perseguire la distruzione di Hitler con o senza speranza di successo …” (Simone Petrement La vita di Simone Weil Adelphi 1994, p. 612).

Incertezze, contraddizioni, penserà chi legge, comprensibili però, perché oscuri, mutevoli e difficili da decifrare furono quei tempi per chi si trovò a viverli, e Weil considerava la contraddizione inseparabile dalla condizione umana in quanto discende dal rapporto di intimità e contemporaneamente di estrema distanza tra Dio e la creazione.

Quando poi i nazisti arrivarono a Parigi, Simone Weil raggiunse Marsiglia dove rimase più di un anno, entrò in contatto con la Resistenza e progettò di raggiungere l’Inghilterra per contribuire alla lotta contro la potenza hitleriana.

In questo periodo, tra il dicembre ‘40 e il gennaio ‘41, pubblicò sulla rivista “Cahiers du Sud” il saggio su “L’Iliade poema della forza” svolgendo idee che risalgono alle sue lezioni scolastiche del 1937.

É una riflessione sul male della guerra, dove la forza si dispiega senza freni.

Mentre la Germania nazista estendeva il suo dominio sull’Europa e e la volontà di potenza che aveva sconvolto il vecchio continente stava per investire il mondo, la filosofa francese andò alle origini della letteratura e del pensiero  occidentale per cercar di capire che cos’è la guerra e che cosa fa degli uomini.

La guerra è l’irruzione della forza che “rende chiunque le sia sottomesso una cosa”. Cosaè il cadavere inanime, straziato dalle ferite; cosa il vinto, alla mercé del vincitore che può ucciderlo o umiliarlo e farne uno schiavo; ma cosa è anche il vincitore che crede di possedere la forza mentre ne è posseduto, crede di agire secondo la propria volontà ma obbedisce all’impeto dalla forza che lo trascina oltre il limite, ignorando che “il forte non è mai assolutamente forte”.

Così, coloro che si credono forti periscono per troppa sicurezza: “Essi infatti non considerano la propria forza come una quantità limitata, i loro rapporti con gli altri come un equilibrio tra forze impari. Dato che gli altri uomini non impongono ai loro movimenti quella battuta d’arresto  da cui solo può nascere il rispetto verso il prossimo, essi concludono che il destino ha dato loro ogni dritto e nessuno ai loro inferiori. Da quel momento essi vanno al di là della forza di cui dispongono … sono allora abbandonati al caso e le cose non gli obbediscono più.”

Simone Weil ritrova nell’Iliade gli spunti  per far capire anche a noi quanto sia difficile terminare una guerra anche se a un certo punto, sperimentate le fatiche, i disastri e gli orrori, l’”inutile strage”, appare ragionevole a tutti che sarebbe meglio trovare un compromesso e smettere. “Un uso moderato della forza, che solo consentirebbe di sfuggire all’ingranaggio – scrive – richiederebbe una virtù più che umana”, e poco dopo: “Di solito  non è un pensiero politico a consigliare l’eccesso.  É proprio la tentazione dell’eccesso a essere irresistibile.” Gli sviluppi di una guerra di solito stravolgono gli scopi che si erano prefissati iniziandola. La filosofa francese lo afferma in maniera radicale: “La guerra cancella ogni idea di scopo … Cancella il pensiero stesso di metter fine alla guerra. La possibilità di una situazione fino a tal punto violenta è inconcepibile finché non vi si abita; ma quando vi si abita è inconcepibile che abbia fine.”

Weil ricorda infine quei “momenti luminosi, momenti brevi e divini nei quali gli uomini hanno un’anima” e, tra le fasi dello scontro, compaiono l’amore e l’amicizia. “Tali momenti di grazia sono rari nell’Iliade ma bastano a far sentire con estremo rimpianto ciò che la violenza fa e farà perire.”

Il poema è ispirato da una “straordinaria equità” che nasce dalla constatazione che  gli uomini, tutti, sono alternativamente vincitori e sconfitti, non sanno resistere alla forza e si lasciano trascinare alla rovina. C’è un “sentimento della miseria umana” che accomuna l’Iliade al Vangelo, sentimento che, afferma Weil, è la condizione negativa perché sorgano la giustizia e l’amore.

Leggendo  questo saggio, che possiamo considerare un classico del pensiero contemporaneo, avvertiamo la sua capacità di illuminare il presente e naturalmente andiamo con il pensiero alla guerra in Ucraina, che ci accompagna da mesi con le notizie dei suoi orrori e la consapevolezza di una minaccia che è comparsa a segnare  un prima e un dopo nella storia europea.

Tante riflessioni  di questi mesi si sono concentrate sulle conseguenze della guerra, sui danni permanenti che lascerà.

Non sappiamo come andrà a finire, ma questa guerra, se contribuisce al cambiamento delle relazioni tra gli stati a livello mondiale,  all’Europa impone di riesaminare la sua posizione  e quindi le sue scelte politiche ed economiche.

 Comunque si concluda lo scontro armato, se con l’annessione alla Russia di territori ucraini o con una improbabile ritirata di Mosca, il confine  Est dell’Europa diventerà una frontiera militarizzata,  da presidiare e vigilare per il pericolo, non importa se solo potenziale, che da lì possa venire un ulteriore attacco.

L’aumento di truppe NATO nell’Est Europa, l’impegno dei Paesi europei ad aumentare le spese militari, creeranno una nuova situazione strategica che influenzerà a lungo i rapporti con la Russia e le politiche europee, soprattutto se consideriamo la guerra in Ucraina come la prima mossa di una partita per l’egemonia mondiale che impegnerà le maggiori potenze e avrà come giocatore di primo piano la Cina.

Per effetto delle sanzioni e dei nuovi orientamenti politici, la drastica riduzione dei rapporti economici  tra  l’Europa e la Russia non sarà una fatto contingente. Non dipendere dal gas e dal petrolio russi è diventata per i Paesi europei una scelta strategica da mantenere anche quando fosse superata l’attuale crisi, mentre la delicata questione dei cereali, che servono tra l’altro ad alleviare le carestie in alcuni Paesi poveri, potrebbe essere la base per il mantenimento di un  minimo di negoziato e collaborazione tra le parti.

Più diretti e dolorosi gli effetti nefasti della guerra nell’Ucraina stessa: la morte di militari di entrambe le parti e civili ucraini, le devastazioni e i danni ambientali che segneranno il Paese per molti anni,  la riserva di odio e rancore che gli effetti dell’attacco russo sta accumulando tra quelle popolazioni, destinata a prolungarsi nei ricordi e nei racconti. “Noi e i russi eravamo come fratelli – mi diceva una conoscente ucraina che ha laggiù figlia e nipote –  e adesso li odiamo”.

Tra questi  mali che vediamo crescere con il prolungarsi del conflitto, Simone Weil, rileggendo il poema della guerra antica, fondativo della civiltà europea, ci ricorda quello che agisce più nel profondo: l’opera inesorabile di avvelenamento dell’umanità che riduce gli esseri umani a meccanismi mossi da impulsi elementari, illusi di poter pianificare strategie e scegliere la propria condotta ma in realtà obbedienti all’imperativo della forza, e quindi spinti senza scampo a moltiplicare il danno e il dolore inseguendo una vittoria che lascerà tutti, vincitori e vinti,  insoddisfatti e pieni di rancore.

Lo sguardo lucido di Simone Weil sarebbe prezioso oggi per chi deve decidere sulla pace e sulla guerra, a patto che sappia sottrarsi al fascino della forza. Lei, del suo tempo, fu una testimone coraggiosa e partecipe, fino all’estremo. Dopo aver raggiunto con la famiglia New York, nel maggio 1942, grazie all’aiuto del fratello André,  ritornò dopo pochi mesi in Europa, a Londra, per contribuire alla resistenza francese. Come aveva scritto qualche anno prima a Bernanos,  detestava la guerra ma ancor più aveva orrore per la condizione di chi sta nelle retrovie. Fu incaricata di esaminare documenti politici provenienti dalla Francia occupata mentre lei avrebbe voluto costituire un corpo di infermiere di prima linea. Non si risparmiò nel lavoro e volle nutrirsi solo con la quantità di cibo che il razionamento consentiva ai francesi in patria. Il suo fisico debilitato fu attaccato dalla tubercolosi, morì in un ospedale di Londra il 24 agosto 1943, aveva trentaquattro anni.