
Rai Cultura – Letteratura
di Liz Pibi
“Fame”
è uno di quei romanzi dove non ci arrivi per caso, te lo devi andare a cercare o ti viene consigliato da qualcuno di cui ti fidi ciecamente.
Io l’ho cercato perché è da anni che inserisco fra le mie letture anche i Premi Nobel per la Letteratura.
Knut Hamsum è stato uno scrittore norvegese che si guadagnò il suo Nobel nel 1920 con “Il risveglio della Terra” (che ho già letto), considerato il suo capolavoro, ma la sua fama crebbe con un altro dei suoi lavori, “Fame” appunto. Pubblicato nel 1890, è un breve romanzo la cui storia scorre tra le strade della città di Oslo al tempo in cui era ancora chiamata Christiania.
È un romanzo che in principio mi ha attratta sì, ma con uno strano senso di fastidio. Solo andando avanti ho capito che l’attrazione si stava trasformando in fame, diventava anche la mia Fame.
Romanzo praticamente autobiografico, di primo acchito di facile lettura, poi ti afferra con forza e ti trascina altrove, un fitto monologo che Hamsun scrisse a 38 anni dove il personaggio principale è un giovane “con la febbre della scrittura” sua ossessione, mangia per scrivere e scrive per mangiare, lui col suo pezzetto di carta e un mozzicone di matita, che sono i suoi tesori dentro la tasca della sua giacca stazzonata e consunta.
Questa febbre la sentiamo per tutto il romanzo, scotta, brucia, brucia sul protagonista e brucia nelle pagine. Nella scrittura lui ripone tutte le sue speranze e i suoi sogni ma soprattutto la sopravvivenza.
Degno di nota è il rapporto dell’io narrante con Dio. I dialoghi – diretti, blasfemi – con Dio sono tra i passi più belli del racconto. È un Dio capriccioso, volubile, che si diverte a fare dispetti e a causare disastri, indifferente, come la stessa città e tutti i suoi abitanti. Allora lui lo rinnega, finisce per odiare questo Dio inutile trovandosi a dover gestire una situazione ingestibile per chiunque, ridotto in povertà estrema, senza casa senza lavoro senza un pezzo di pane secco da mangiare, e senza nemmeno più la speranza nell’aiuto divino.
Qui la Fame non è metaforica, qui la fame è fisica, dolorosa, devastante. Ogni parola usata dall’autore nella descrizione della sofferenza del ragazzo è una pugnalata al nostro stomaco. E come è straziante per noi lettori, per me che seguo i suoi passi solitari, assistere impotente all’ammalarsi lento del suo corpo e del suo spirito, la follìa che piano piano lo abita, come è triste e imbarazzante guardare questo giovane uomo che viene divorato dalla sua stessa fame, che si strappa di dosso coi denti brandelli del suo essere senza riuscire a nutrirsi.
Questi sono i suoi giorni scanditi dai crampi della fame, dal vagabondare in attesa di uno straccio di lavoro pubblicato, giorni che lo costringono a fingere e nascondere la sua condizione, a ripiegarsi su se stesso, generando chiusura, solitudine, estraniazione pur anelando l’appartenenza alla comunità, che lo rendono consapevole della precarietà esistenziale, del suo sradicamento, del suo essere randagio, che lo conducono in una spirale verso il basso che cerca di fagocitarlo. E lui annaspa cercando di non perdere la sua dignità e la sua purezza, prova nostalgia per un amore mai consumato, per cose mai vissute, e nonostante tutto quello che sopporta, che subisce, in tutto l’orrore di questa esistenza riesce ancora a mantenere la sua gentilezza, generosità nei confronti degli altri ma sarà purezza alternata a stati di rabbia profonda e di furente ostilità, una schizofrenia di cui non è consapevole.
In un continuo dialogo con se stesso, nei momenti lucidi e in quelli allucinati, il ragazzo riuscirà comunque a proteggere e salvare ciò che lo fa sentire vivo e che gli permetterà di vivere.
(Lo stile di Hamsun nel descrivere il protagonista mi ha ricordato il tormentato Raskol’nikov di “Delitto e castigo” di Dostoevskij. La sua scrittura è senza fronzoli, anche poetica a suo modo, dotata di introspezione ma non nel modo magistrale e inquietante di Dostoevskij, autore di cui ho letto tutto e che amo in modo particolare).
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