Di Luciana Benotto

Il 20 luglio 2000 la Gazzetta Ufficiale pubblicò la legge n. 211 che istituiva il 27 gennaio “Giorno della Memoria, in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”; cinque anni più tardi l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituì “La Giornata internazionale di commorazione in memoria delle vittime della Shoah”, e scelse anch’essa il medesimo giorno perché proprio quel giorno ricorrevano sessant’anni dalla liberazione dei campi di concentramento avvenuta esattamente il 27 gennaio 1945, ovvero quando le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau e liberarono dall’inferno del lager i settemila detenuti stremati dalla fame, dai maltrattamenti, dalle torture, dalle malattie. Come tutti sanno gli ebrei sterminati dalla follia hitleriana furono sei milioni; ma non bisogna però dimenticare tutti gli altri che subirono la medesima sorte, contraddistinti, non dalla stella gialla di Davide, ma da triangoli colorati da portare sulla casacca: rosso quello dei detenuti politici, marrone per i rom, rosa per gli omosessuali maschi, viola per i Testimoni di Geova, blu per gli oppositori del nazismo rientrati in patria con la minaccia di ritorsione contro i loro familiari, ma anche per i prigionieri politici spagnoli, verde per i delinquenti comuni tra quali vennero scelti i kapò, nero per gli asociali: donne omosessuali, disabili,  prostitute, vagabondi.

Shlomo Venezia

Proprio per non dimenticare vorrei proporvi la lettura di due libri, due testimonianze veramente potenti, il primo è Sonderkommando di Shlomo Venezia, un ebreo di Salonicco di nazionalità italiana, arrestato con la famiglia ad Atene alla fine del marzo 1944 e deportato ad Auschwitz-Birkenau, dove fu assegnato all’unità che dà il titolo al libro, in cui egli aveva il tremendo compito di accompagnare i prigionieri alla camera a gas, aiutarli a svestirsi e poi a recuperare dai cadaveri prima di metterli nel crematorio, capelli e denti d’oro. Tale era lo strazio che si portava dentro, che non trovò la forza di raccontare la sua orrenda esperienza sino al 1992.

L’altro testo è Necropoli di Boris Pahor, uno scrittore sloveno nato a Trieste e con cittadinanza italiana, che all’età di sette anni assisté all’assalto squadrista del regime fascista italiano alla Casa del Popolo, sede della comunità slovena triestina, e questo trauma della negazione forzata dell’identità slovena se lo portò dietro tutta la vita parlandone nei suoi romanzi. Sfuggito nel ’40 all’arresto da parte dei tedeschi, decise di unirsi alle truppe partigiane slovene della Venezia-Giulia fino al 1944, quando venne arrestato dai collaborazionisti sloveni: i domobranci. Incarcerato e torturato dalla Gestapo fu poi deportato in diversi campi di concentramento, prima in Francia e poi in Germania a Natzweiler, Markirch, Dachau, Nordhausen, Harzungen e Bergen-Belsen.

Boris Pahor

In Necropoli ricorda una domenica pomeriggio quando andò, insieme a un gruppo di visitatori, al campo di concentramento di Natzweiler-Struhof, per rivedere uno dei luoghi dove era stato deportato. Lì il flusso della memoria comincia a scorrere in lui e i ricordi dolorosi a riemergere insieme alla rabbia ma, insieme alle efferatezze riemergono altresì l’umanità e la solidarietà degli internati mai sconfitte dai carnefici, e il desiderio di sopravvivere a qualsiasi costo.

I miei romanzi storici li trovate nelle librerie e in tutti i bookshop on line