Aldo Busi al suo libro più sincero e anche, forse, più difficile. Non che i suoi libri precedenti non fossero sinceri: se c’è uno scrittore che non si è mai tirato indietro nel far conoscere il proprio modo di pensare e che già in quel suo bellissimo primo libro che era (ed è) “Seminario sulla gioventù” (di cui consiglio assolutamente la lettura ai pochi che non l’avessero fatto) è proprio lui, Busi, ora al suo libro più impegnativo e dove, diciamolo, appare più giustamente “incazzato”.

Probabilmente c’è un’età, in genere dopo i 60 anni, in cui si incomincia a fare i conti con quanto e come si è vissuti e si pensa, sgomenti, a come e quanto si vivrà. Lo hanno fatto Philip Roth e Paul Auster in quelli che io considero i loro libri più belli. In questo libro dato alle stampe nel 2015 lo fa anche Aldo Busi che sembra quasi voler confessare un po’ se stesso ma, nello stesso tempo, da polemico (giustamente polemico!) qual è, sente il bisogno di lanciare il suo “j’accuse!” a quello che lo circonda.

Lo troviamo all’inizio del libro in vestaglia, da solo, nella sua casa mentre si domanda se è meglio vivere quella condizione oppure viverne una simile in compagnia di qualcuno. Già, ma in compagnia di chi? E qui si aprono le cateratte dello sfogo: contro l’amicizia che è tale solo sulla carta, contro l’amore tradito, e poi, allargando il discorso e storicizzando, contro il vivere generale, da come si è governati a come sono gestiti i rapporti umani, da come una persona può sbagliare e isolarsi involontariamente dal mondo per l’esigenza di dire la sua verità sui mali che ci affliggono, a come invece possa essere isolata per gli stessi motivi.

Scrive “Dicono che la solitudine sia una scelta di vita: balle. Balle più una rottura di palle”. Lui la chiama la rottura di palle definitiva, “la ciliegina sulla torta, dopo che ti hanno sottratto anche la torta sotto e la ciliegina levita sul niente che ci vuoi vedere tu”. È solo la premessa per sparare a zero sul nostro vivere quotidiano, fatto di bisogni finti, di atteggiamenti costruiti dai media per far credere che si viva in un mondo migliore, più grande. Viene in mente l’ironia della canzone di Gaber “Come è bella la città”. La campagna abbandonata, le città sovrappopolate, il ladrocinio continuo di chi è al potere, cose tutte risapute ma mai analizzate fino in fondo e in tutta serietà. Perché anche il talk-show alla fine partecipa alla grande festa per fare spettacolo.

E nel frattempo gli anni passano, e con essi gli acciacchi, si vive di più ma non si vive meglio, gli amici diminuiscono, cresce la solitudine, i nuovi dei del consumismo prendono il posto di quelli vecchi dei valori. Ma ci siamo accorti che siamo ormai giunti alla frutta?

La sovrappopolazione determina la condotta di vita, la coperta si è stretta e nello stesso tempo è impensabile tornare indietro. C’è solo, per chi ne ha l’età, una forma di nostalgia che, come tutte le nostalgie, rimane tale e poco consola.

Busi, che si autodefiniva lo scrittore italiano più importante del secolo e di quest’affermazione, provocatoria, ne faceva bandiera, oggi è uno scrittore che non ha editore. Che ogni volta che deve pubblicare un libro quasi lo deve fare a sue spese (e non ha timore di raccontare nel libro le traversie che deve affrontare ogni volta che deve mandare in stampa la sua nuova opera che ha appena terminato di scrivere). E ha il coraggio di scriverlo questo, come non teme di dare voce a quelli che sono i suoi pensieri più molesti, incattiviti negli anni a causa della gente che si è incattivita con l’incattivirsi della vita.

Racconta ciò in questo libro. che non è un romanzo, né un saggio, né un autobiografia, ma è tutto quanto insieme. Una “tranche de vie” che si sente sfuggire dalle vene. Non c’è alcuna forma di pudore nel raccontarsi (del resto lui è sempre stato un uomo che non ha mai avuto timore di esporre la sua natura più genuina). Bella forza, fare “coming-out” oggi: c’è quasi da insospettirsi quando viene fatto da qualche personaggio in ribasso di popolarità).

Con questo libro siamo nel 2015, ma in realtà esso è il seguito ideale di “Sodomie in corpo 11”, datato 1988. E si parla di sesso in maniera asettica, descrivendolo quasi come un atto dovuto e riservandone la parte più eccitante alla ricerca del partner. Ma si parla anche e soprattutto d’amore. E in questo campo l’autore confessa che gli unici suoi amori sono stati quelli verso le donne, verso una in particolare, che gli ha fatto soffrire le classiche pene dell’inferno.

Viene agognato un ritorno alla natura e forte appare il rimpianto di quando lui era ragazzino e viveva la vita di campagna, dove c’erano le vacche amiche in attesa della monta, ne ricorda i momenti che allora potevano apparire disagi ma che ora sono visti come l’unica forma di sopravvivenza praticabile in questa nostra misera vita distrutta dal tecnicismo sfrenato. Romantico? E perché no? Se questa è la valvola di salvezza, se si riconosce nell’uomo quell’antico humus di pietà verso se stesso e verso il suo simile?

Libro intenso sotto diversi aspetti, da leggere e rileggere almeno una seconda volta per meglio comprenderne le motivazioni più segrete ed espresse in uno stile certo di non immediata e facile presa, com’è tipico nei libri di Busi, ma che poi rappresenta nella maniera più adeguata la vera chiave di volta del pensiero che egli ha voluto esprimere.

Il libro è stato da me letto a suo tempo, alternandolo ad altri più “leggeri” come sono solito fare. L’ho ripreso ora e mi sento di dargli, pur non essendo ideologicamente vicino a Busi, la definizione del capolavoro.

Aldo Busi: “Vacche amiche” (Un’autobiografia non autorizzata)” Marsilio Editore, 2a ed., 2015, pp. 180, € 15,00

(Carlo Tomeo)