eroi valeria-bertoldo

EROI SILENZIOSI… IN PNEUMOLOGIA – Valeria: “Si torna alla normalità, ma non tutti capiscono la gravità”

di Silvia Alabardi

Ventinovenne gallaratese al suo ultimo anno di specializzazione in PneumologiaValeria Bertoldo lavora presso un ospedale lombardo, dove da oltre un mese sta affrontando in prima linea l’emergenza sanitaria che ha colpito il nostro Paese. Essere medico ai tempi del Coronavirus è una missione ancora più delicata, come testimoniano le statistiche sui contagi a cui sono esposti i professionisti del settore sanitario. Valeria ci racconta la sua storia, tra turni sfiancanti, necessarie misure di prevenzione e l’immancabile spirito di sacrificio che infonde la forza di continuare questa battaglia.

Com’è cambiata la tua giornata di lavoro?
“Il cambiamento principale è che per lavorare dobbiamo procedere all’apposita vestizione con i dispositivi di protezione individuale, con cui rimaniamo totalmente coperti per tutto il turno. Non potendo togliere questi presidi per 6 e 7 ore consecutive, i disagi non sono pochi, come il fatto di non poter bere né andare ai servizi. Inoltre, essendo impermeabili, fanno sudare molto quando ci si muove. Con queste limitazioni fisiche, ragionare a mente fredda diventa più complesso, quindi è fondamentale restare lucidi. Anche i turni sono cambiati: prima dell’emergenza Covid noi specializzandi lavoravamo per 10/12 ore al giorno per cinque giorni a settimana e un weekend al mese, ora invece lavoriamo per più giorni di seguito con turni più brevi suddivisi tra mattino-pomeriggio-notte, proprio perché non si può resistere a lungo con i presidi. All’inizio dell’emergenza ci toccavano dai 10 ai 14 giorni consecutivi, seguiti da un giorno di riposo. Da questa settimana, però, stiamo tornando gradualmente alla normale organizzazione dei turni. Sin da subito, ogni volta che entriamo in ospedale ci rilevano la temperatura. Il rischio di contagio è molto alto e infatti qualche mio collega si è dovuto mettere in quarantena perché risultato positivo al tampone. Abbiamo anche dovuto rimandare le visite ambulatoriali a data da destinarsi. Ora siamo molto impegnati con il Covid, ma una volta finita l’emergenza dovremo recuperare tutti gli appuntamenti, che magari erano stati programmati già da un anno. Normalmente le nostre agende sono sempre piene, quindi la situazione sarà difficile anche dopo e dovremo lavorare ancor di più per smaltire tutte le visite in arretrato”.

Personalmente come stai vivendo questa situazione?
“La stanchezza è naturale ma resto molto concentrata sul mio lavoro. Considerata la portata dell’emergenza, mi sento in dovere di dare il mio contributo. Ho colleghi di tante altre specialità che si sono dovuti cimentare in questa patologia, quindi a maggior ragione la mia specializzazione mi sembra fondamentale e un motivo in più per stare in prima linea. Ormai mi sono abituata a questa nuova routine e il lavoro mi tiene impegnata, ma vivo in isolamento ed è da più di un mese e mezzo che non torno a casa. Essendo esposta quotidianamente, non posso sapere quando e se potrebbero presentarsi eventuali sintomi, per cui non voglio rischiare di fare ammalare la mia famiglia. In ospedale la cosa più difficile è stata rendermi conto che i pazienti stavano morendo e che non potevamo fare nient’altro per impedirlo. In quei momenti si prova tanta rabbia perché se avessimo già avuto disposizione il vaccino o altri farmaci mirati, saremmo riusciti a salvare molte più persone. Un altro momento straziante è la comunicazione del decesso al telefono e non poter dare ai familiari la possibilità di vedere i loro cari per l’ultima volta”.

Quanto è complesso stare nel reparto di Pneumologia?
“Rispetto ad altri reparti, il nostro è stato in parte convertito in terapia intensiva e lavoriamo insieme ai rianimatori. In condizioni normali, la Pneumologia ha un reparto per pazienti con necessità di ossigeno e un reparto semi-intensivo respiratorio. Ora, invece, ci dedichiamo esclusivamente ai casi medio/gravi e ai pazienti intubati. Non potevamo fare altro che rimboccarci le maniche e dare una mano. In generale, tutto l’ospedale è stato riorganizzato; infatti anche gli altri reparti hanno accolto i pazienti con casi di polmoniti, di cui prima non si occupavano. La stessa cosa succede in tutta Lombardia, in Veneto e nelle altre zone più colpite. Gli ospedali vengono suddivisi per competenze, lasciando in determinati settori alcuni reparti Covid-free. L’aspetto più complesso da gestire è senza dubbio la drammaticità della situazione: se prima all’interno del reparto avevamo due o tre pazienti in cattive condizioni cliniche, ora invece sono tutti casi di polmoniti gravi nello stesso momento”.

Come si è evoluta questa situazione di emergenza dai primi casi fino ad ora?
“Nelle prime settimane abbiamo avuto un boom di contagiati provenienti dalle aree più critiche, come il Lodigiano, Cremona, Bergamo, Crema. Tutto l’ospedale è stato riconvertito per accogliere i pazienti Covid e abbiamo iniziato a usare le sale operatorie con i ventilatori polmonari per i casi gravi che richiedevano l’intubazione. Con l’ulteriore diffusione del virus sono arrivati anche i contagiati locali, quindi abbiamo raggiunto picchi molto alti. Da una settimana circa la situazione fortunatamente sta migliorando: le terapie intensive sono un po’ più libere e poco a poco alcuni reparti dedicati ai malati Covid stanno chiudendo”.

Da medico, pensi che dovremo convivere a lungo con il problema Covid?
“Non sono un virologo, ma credo proprio di sì perché si tratta di un virus che resta per molto tempo nell’organismo anche dopo la guarigione clinica. Possono passare anche settimane per smaltire il Covid e risultare negativi al tampone, sebbene non si abbiano più sintomi, quindi per tutto quel periodo si potrebbero contagiare gli altri. Personalmente vivo questa situazione come una minaccia perché non siamo ancora usciti dalla fase uno e il numero di contagi al giorno è ancora alto, il che mi fa pensare che si potrebbe andare avanti fino all’estate. L’unica cosa positiva, che è quello che storicamente si verifica in tutte le epidemie, è che la virulenza con il tempo diminuisce, proprio come era successo con l’H1N1. Il Covid potrebbe quindi diventare un’influenza come tutte le altre e avere un grado di pericolosità minore. Difatti, anche l’influenza stagionale A e B è causa di decessi, ma in quel caso si tratta principalmente di persone fragili o immunodepresse. Al momento, però, il Covid, sta colpendo anche persone giovani senza patologie pregresse. A questo proposito le informazioni che circolavano nei media sono state fuorvianti, ma noi medici avevamo ben presente la pericolosità del virus. È un problema molto serio e dobbiamo sperare nel vaccino. D’altro lato, è anche importante che tutti si sforzino di seguire le regole. Ci sono ancora molte persone poco attente che non si comportano nel modo corretto, ad esempio escono con la mascherina abbassata, non si lavano le mani con la frequenza dovuta o non rispettano le distanze di sicurezza. Penso che molti non siano coscienti della gravità della situazione, nonostante le statistiche tuttora allarmanti. Ma quando si lavora in ospedale e si vedono i pazienti morire davanti ai propri occhi, è tutto un altro discorso”.

Silvia Alabardi

Articolo pubblicato su www.varesesport.com/2020 di oggi