Washington, abbiamo un problema, di Marco Ciani

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I fatti accaduti ieri a Capitol Hill, la sede del Governo degli Stati Uniti che ospita l’edificio con cupola del Campidoglio, il Senato, la Camera dei rappresentanti e la Corte Suprema, sono oggettivamente gravi.

Supporter fanatici dell’attuale presidente repubblicano Donald Trump, alcuni dei quali conciati in modo folkloristico ma non perciò meno pericolosi, hanno assaltato il parlamento. Il loro inutile tentativo di impedire la proclamazione del nuovo capo di Stato, il democratico Joe Biden, getta un’ombra sinistra sul futuro della più importante ed antica democrazia del mondo. Un’onta destinata a lasciate cicatrici profonde, anche quando il nuovo assetto politico avrà avvicendato l’attuale.

Sarebbe però ingenuo e riduttivo immaginare che il problema sia rappresentato da Trump e dai suoi esagitati sostenitori, una minoranza del popolo americano, ma anche del Partito Repubblicano e degli stessi 74 milioni di elettori che lo hanno sostenuto con il voto alle presidenziali del 3 novembre scorso. Non è questo il punto.

Mi trovo sostanzialmente d’accordo con Giorgio Barberis, nell’affermare che Trump non è la malattia, ma il sintomo. La spia di una condizione di disagio pervasiva e per certi versi invisibile, o perlomeno poco compresa, fino a quando, nel 2016, un personaggio da show televisivo come il tycoon newyorkese vinse a sorpresa le primarie del suo partito, per catapultarsi successivamente alla Casa Bianca.

Dove sta allora la questione? Sta nel trovare la cura, non per il sintomo, ma per la patologia che ha radici sociali profonde, specie nelle periferie sia territoriali che esistenziali. Una condizione dovuta all’aumento delle diseguaglianze, alla crescita esponenziale e disorientante delle nuove tecnologie, all’uso irresponsabile, manipolatorio e talvolta criminale dei social network, all’indebolimento dei legami sociali e dei tradizionali punti di riferimento, compresi i corpi sociali intermedi che godevano di radici particolarmente robuste, come descritto quasi due secoli fa da Alexis de Tocqueville nel celebre saggio La democrazia in America.

Tutto ciò si è tradotto, negli USA e altrove, in un attacco sempre più manifesto alle élite politiche, ma non solo politiche. La sfiducia nella scienza che si manifesta, ad esempio in questi giorni, con il diffuso scetticismo sull’utilizzo dei vaccini anti-covid appare una testimonianza limpida.

Purtroppo molti, compreso chi scrive, si sono cullati in modo ottimistico nella speranza che i paesi anglosassoni godessero di una immunità naturale al virus dell’autoritarismo. Abbiamo trascurato la lezione del filosofo Karl Popper secondo il quale nella storia non ci sono leggi (come quelle fisiche), ma solo tendenze. La differenza fondamentale tra la legge di gravitazione e una tendenza umana sta nel fatto che la tendenza, anche quando dura da parecchio tempo, può essere interrotta. Basta sfogliare un libro di storia.

Come finisca la vicenda di questa notte, non possiamo stare sereni, per usare un’espressione nota. Se le cause che hanno condotto ai fatti di ieri non saranno rimosse o perlomeno attenuate significativamente, altri personaggi, anche più pericolosi, potranno riprendere l’opera di rottura degli argini costituzionali, in America e ovunque.

Popper paragonava le istituzioni democratiche alle fortezze. Intendeva soprattutto due cose.

La prima. Come le fortezze anche le democrazie devono essere presidiate, perché resistono se è buona la guarnigione. Ma da chi vanno difese? Da tre categorie di impostori: i violenti, i corrotti e i falsi profeti. Un falso profeta è chi convince il popolo, o meglio una parte consistente di esso, che la soluzione ai problemi complessi di una società moderna sta nell’andare verso una società chiusa, ovvero illiberale, dove il dissenso non è tollerato. Dove non esistono avversari da sconfiggere in elezioni regolari e certificate (come avvenuto negli USA, anche negli Stati governati dai repubblicani), ma nemici da abbattere.

Contro questi soggetti la democrazia liberale va difesa anche con la forza. Che significa usare gli sfollagente, gli idranti, i lacrimogeni e, se necessario, i proiettili. Popper non lo diceva in modo così esplicito, ma è previsto dagli ordinamenti costituzionali democratici e dalle leggi. Leggi che vanno fatte valere. Perché la libertà di ognuno si ferma dove inizia quella altrui.

La seconda. Le democrazie offrono un campo di azione che permette l’attuazione di riforme, senza dover ricorrere all’uso della violenza. Per questo «Le istituzioni sono come fortezze: devono essere ben progettate e gestite» ci ricorda il nostro autore in La società aperta e i suoi nemici. Ma da chi dipende il funzionamento delle istituzioni? Dalle persone che vi provvedono. Dunque occorre siano indirizzate verso la cura dei mali, ovvero le disfunzioni sociali, che producono effetti politici nefasti.

In sintesi, se non si curano i malanni delle società democratiche – i malanni, non i segnali come Trump – gli agenti patogeni aumentano e gli anticorpi diminuiscono. In altro modo, i difensori della fortezza si riducono mentre crescono gli assalitori. E le democrazie vacillano. Quale che sia la loro Costituzione. La Repubblica di Weimar godeva di una carta costituzionale invidiabile, che però non impedì l’ascesa di Adolf Hitler e tutto il resto.

E tuttavia, anche le Costituzioni mantengono una loro utilità. Sarebbe sciocco rimuovere tale aspetto. Nel caso degli Stati Uniti d’America credo vi siano due temi che i fatti accaduti pongono in rilievo. Uno di piccola, ma significativa portata. L’atro invece di grande impatto.

Il problema minore è dato, a mio avviso, dall’intervallo temporale eccessivamente lungo tra le elezioni presidenziali e l’entrata in carica del nuovo inquilino della Casa Bianca. Le procedure sono complesse. Sono coinvolti i singoli Stati, i grandi elettori e infine il Congresso. Ogni contestazione deve essere vagliata dalle Corti. Tutto giusto. Ma dai primi di novembre al 20 gennaio dell’anno successivo passano 2 mesi e mezzo. Un periodo sproporzionato che non ha mai costituito un problema finora, ma lo potrebbe costituire in futuro. Lo possiamo già osservare.

La questione più rilevante invece è la seguente: il sistema costituzionale americano conferisce al presidente in carica poteri enormi. Egli assomma in sé le funzioni di capo di Stato e primo ministro, non necessita della fiducia del parlamento, può mettere il veto sulle sue leggi e può assumere molte decisioni senza l’autorizzazione del Congresso.

Tale assetto conferisce alle istituzioni degli USA un grado di rapidità ed efficienza invidiabile. Ma a prezzo di concentrare nelle mani di un’unica persona un’autorità smisurata. Di nuovo, finora nulla quaestio. Ma che accadrebbe se le prerogative presidenziali finissero nelle mani di un pazzo irresponsabile? Bisogna pur prevedere questa eventualità.

I più perspicaci tra i miei tre lettori, obietteranno che esistono l’mpeachment (messa in stato di accusa) e il 25esimo emendamento: sono i due possibili iter costituzionali per destituire il presidente. In breve, il 25esimo emendamento consente di rimuoverlo senza che sia necessario elevare accuse precise. Basta che il vice presidente e la maggioranza del gabinetto trasmettano una lettera al Congresso sostenendo che il presidente non è in grado di esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio. In tal caso gli subentra il vicepresidente. Se il presidente si oppone, a decidere è la Camera, con i due terzi dei voti.

Non occorre essere degli esperti di politica internazionale o di diritto costituzionale comparato, per intendere in un batter di ciglia, che entrambe le procedure sono abbastanza farraginose e di difficile attuazione. Anche se in passato sono state usate. Woodrow Wilson, incapace mentalmente a seguito di un ictus, ispirò il 25° emendamento che sarà approvato nel 1965 e ratificato 2 anni dopo. Richard Nixon nel 1974 si dimise per evitare un sicuro impeachment. In tutti gli altri casi i presidenti messi in stato di accusa sono stati assolti.

Dunque il dilemma si pone. E andrebbe risolto anche con una revisione, affatto semplice, degli assetti istituzionali. Che con poche eccezioni, sono radicati nella storia del paese e frutto di delicati equilibri sia tra i diversi poteri federali per un verso, sia tra il centro e i 50 Stati di cui si compone la federazione per l’altro.

In conclusione. Viviamo tempi interessanti, come recita un’antica maledizione cinese. Anche le convinzioni sull’eterna solidità delle democrazie secolari iniziano a barcollare. Non rimane che rimettere mano alla fortezza, per tornare alla metafora popperiana, nel tentativo di renderne più solide le fondamenta ormai periclitanti con riforme che stemperino i problemi sociali. Nel contempo serve irrobustire la guarnigione convincendo i timidi e gli indifferenti che la buona battaglia della libertà non è mai vinta per sempre. Avremo quello che ci meritiamo.