Luoghi, personaggi, fatti e leggende

La tedesca, di Luciana Benotto

Mi conoscete come autrice di romanzi storici e articoli culturali, ma oggi contravvengo

al mio cliché perché ho ripescato una delle prime novellette scritte tanti anni fa, che mi fece aggiudicare il secondo posto ad un concorso per storie brevi. E’ un raccontino umoristico che spero vi faccia sorridere, e che nasce dall’aver conosciuto i protagonisti, ancora oggi ignari che io abbia raccontato il fatto, perché si rivela il peccato ma, come si dice, non il peccatore.

La tedesca

Il professor Colombini era un tipo timido e impacciato. Aveva una bocca un po’ sgangherata per via di alcuni denti sovrapposti, e gli alunni l’avevano malignamente soprannominato barracuda; inoltre, parlava con una sorta di cantilena che contribuiva a peggiorare le cose. Sì, era spallato e aveva gli occhi di un bel grigio azzurro, ma ahimè, la natura non era stata molto generosa con lui: quegli occhi, incorniciati da lunghe ciglia nere, erano nascosti dietro spesse lenti da miope.

Quell’autunno del Sessantotto, aveva deciso di uscire dal suo guscio entrando a far parte dello staff direttivo della scuola, in qualità di collaboratore del preside, e gli era subito caduta tra le mani una patata bollente: centoottanta ragazzi in rivolta a causa dell’insegnante di tedesco che aveva preso i registri per tante schedine.

Quella bionda alta e formosa doveva rompere le uova nel paniere proprio a lui? A lui, che pur di evitare qualsiasi diverbio sorrideva conciliante anche a chi stava per accoltellarlo nella schiena? A lui, che con le donne era così goffo che a trentasei anni non ne aveva ancora impalmata una tanto che la gente del paese diceva: El gal alza la creia, el can alza la coa, ma lì s’alza nient.

Quella mattina il preside era così furioso che avrebbe venduto sua madre pur di non far trapelare la notizia, e quando il Colombini biascicò: “Signor Preside cosa posso fare?

…Mi sento impotente”. Il capo d’istituto, con la pelle delle mascelle contratta e le narici dilatate abbaiò: “Se lei non sanerà la faccenda, se non redimerà quella pazza della Eva Brandauer, io…io… la farò pentire d’essere nato”. E proseguì paonazzo: “L’ho appena fatta chiamare in presidenza. Ora io esco, altrimenti mi viene un infarto, ma lei, lei starà qui dentro fino a quando la questione sarà risolta e badi bene, badi bene…” ed era uscito con l’indice della mano destra ancora alzato.

Mentre l’aspettava, si era appoggiato sconsolato alla scrivania; dall’esito di quella storia sarebbe dipeso il suo futuro.

Lei era entrata con irruenza teutonica: “Guarda, se mi devi parlare dei ragazzi e delle loro lamentele esco subito”.

“Ma no, è meglio parlarne. Lo sciopero di oggi è contro di te. Forse…” azzardò “sei troppo severa”.

“Severa io?” sbottò. “Sono degli asinacci. Io faccio il mio dovere, spiego, spiego e loro?

Niente. Ma lo sai che passo i pomeriggi a preparare le lezioni? Accidenti! Sono sempre sola, che altro vuoi che faccia? Mi annoio”. E giù una parola in tedesco che a Colombini era parsa un moccolo. Mentre gli diceva quelle cose, pensava che gli piaceva fin dal primo giorno che l’aveva visto. Trovava attraente quella sua aria impacciata e indifesa e poi, avrebbe voluto sapere se quello che diceva la gente era vero. Ti voglio pensò ad un tratto. Quell’idea guizzatale improvvisamente per la testa, come un serpente che si scaglia rapido sulla preda, l’aveva fatta ansimare come se le mancasse il respiro, e il suo petto prosperoso iniziò ad alzarsi ed abbassarsi aritmicamente. Lui, senza accorgersi, si era allentato la cravatta.

“Guarda che hanno minacciato di telefonare a dei quotidiani”.

“Che lo facciano”. Aveva ribattuto sollevando noncurante una gamba.

“Oh, no! Mi si è smagliata una calza”.

Aveva guardato pure lui, però, più che una smagliatura aveva visto una gamba lunga e ben fatta; ma non la vide per molto perché si trovò inaspettatamente senza occhiali e con le dita di Eva infilate nel lungo ciuffo che portava alla Mascagni.

“Che begli occhi hai. E che capelli setosi” gli aveva sussurrato.

Quell’improvviso approccio gli provocò un grande turbamento, e sentì un certo non so che nelle brache.

“Di’ la verità, sono il tuo tipo, non è vero?”

E mentre lui inforcava gli occhiali, lei si diresse lesta verso la porta e la chiuse a chiave guardandolo di sottecchi, con avidità, come quando si pregusta un piacere proibito. Si era poi girata lentamente, sfilandosi voluttuosamente il maglioncino nero sotto il quale non portava niente. Il bianco della pelle e due seni sodi come quelli di una quindicenne, lo abbacinarono, e rimase lì incantato con le pupille dilatate. Eva gli si avvicinò e lo strinse a sé. Colombini, con le labbra involontariamente compresse sul petto della valchiria, non respirava più. Come un automa si lasciò sdraiare sulla scrivania del preside, tra le scartoffie, i timbri, i lapis, le gomme e, mentre la Brandauer lo riempiva di baci e con una mano cercava di sbottonargli i calzoni lui, sotto quel dolce peso, armeggiava alla meglio per richiuderli.

Ad un tratto gli venne in mente sua madre e, preso dal panico, trovò la forza di alzarsi di scatto e scappare gattoni coi pantaloni calati, fino al bagnetto attiguo.

Eva, dopo un primo momento di stupore, realizzò che se ne voleva andare per davvero, allora lo raggiunse e con voce metallica gli disse: “Domani interrogo. Farò una strage”.

“Noo! Non puoi farmi questo”.

E mentre lo diceva, inginocchiato sul tappetino del lavabo, con la camicia che gli penzolava sulle mutande, immaginò i volti dei colleghi che sghignazzavano, il preside che digrignava i denti come un mastino napoletano, e i centoottanta allievi che urlavano inferociti il suo nome.

Fu così, che per la causa comune, il professor Colombini perse la sua purezza in una tiepida mattina d’ottobre.