Entra un tipo nel bar. Si guarda attorno. Per un attimo ci guardiamo reciprocamente per vedere se ci conosciamo, ma una volta che entrambi abbiamo assodato che siamo due estranei continuiamo a ignorarci a vicenda. Poi ordina un Campari. Si mette a sedere. Ha la voce roca, un poco rauca, forse rovinata dalle sigarette. Non ha affatto l’aria di essere un avvinazzato. Si muove con disinvoltura. Ha tutta l’aria di essere uno che sa come ci si comporta. Di certo è tranquillo. Non è uno che cerca guai.   Io sono seduto in un angolo nascosto da occhi indiscreti. Ho messo la mascherina e il cellulare sulla sedia accanto. Mi bevo la mia birra. Festeggio il fatto che i miei genitori sono guariti definitivamente dal Covid. Lo hanno avuto in forma lieve. È durato due settimane. Poi hanno fatto entrambi il tampone alla farmacia  e sono risultati negativi.  Cerco la mia posizione, la mia postura. Cerco di rilassarmi. Incrocio le gambe. Poi guardo nel portafoglio quanti spiccioli ho.   La mia visuale comprende il frigo e il tavolino dove si è seduto questo tizio, ma non il banco né la barista. Penso che in questo bel bar non sono mai andato nel bagno. Un tempo giudicavo i bar dalla pulizia del bagno. Decenni prima ancora giudicavo i bar dal fatto che ti facessero andare nel bagno o meno. Molti anni fa dicevano che i bagni erano rotti perché avevano paura che vi andassero a drogarsi. Se si fidavano di te e solo in quel caso allora ti davano le chiavi. Poi venne la legge che i baristi erano obbligati a tenere sempre disponibili i bagni e che però chi voleva usufruirne doveva consumare, doveva essere cliente. Ma in fondo non ho mai avuto bisogno del bagno e non me ne importa. Il bar comunque è pulito. Ci tengono all’igiene. Questo tale ha la barba incolta. Nonostante sia sulla quarantina non ha calvizie né è stempiato. L’aspetto è curato. Indossa anche un cappello. Smanetta col cellulare.  Telefona al suo datore di lavoro. È un rappresentante con i problemi tipici dei rappresentanti: vuole un fisso mensile decente, vuole provvigioni più elevate, dà un’ulteriore conferma che non vuole un lavoro come dipendente,  vuole che gli sia dato tempo di imparare il mestiere con quell’azienda con cui lavora da poco, snocciola alcune sue esperienze lavorative,  rivendica una maggiore equità retributiva e fa paragone con altri, ricorda che può avere altre opportunità lavorative più vicine a casa, ricorda che ha un figlio da mantenere. Faccio finta di niente. Volente o nolente,  giungono alle mie orecchie questi brani di conversazione. Il tizio parla con cognizione di causa, il suo eloquio è fluente,  sa quello che dice, si esprime in un un italiano corretto, ha anche una dizione corretta priva di inflessioni dialettali e di cadenze. Anche la barista fa finta di niente. Le sue parole restano nell’aria per qualche secondo, poi si dissolvono.  Chi è costui? E se fosse un altro me stesso? Un altro me stesso con una vita completamente diversa? E se avessimo solo esperienze di vita diverse, ma se fossimo uguali nel profondo? E se tutti gli uomini di tutti le epoche e di tutti i luoghi fossero uguali nel profondo? È solo di passaggio in questo bar oppure anche lui è un cliente abituale, che però io fino ad ora non ho mai visto? Cosa mi accomuna a lui e in cosa siamo differenti? Difficile, quasi impossibile dirlo. Difficile stabilire in cosa siamo uguali e in cosa siamo diversi nell’animo noi esseri umani. Cerebralmente ogni essere umano ha sinapsi chimiche ed elettriche, neuroni, insomma materia grigia unica e irripetibile rispetto agli altri: non esistono due cervelli uguali a questo mondo, neanche per i gemelli omozigoti.  Ma nell’animo? Penso che il carattere, la cosiddetta personalità di base siano banalizzazioni, volgarizzazioni della psicologia, che deve fare ciò per dare definizioni operative ed essere scientifica. Ma in realtà le cose sono più complesse. Non c’è niente di lineare nell’animo umano. Uso questa espressione letteraria ricorrente, che può voler dire tutto e niente, che è generica, ma rende bene l’idea di quanto sia difficile sapere la verità: uso “animo umano”. Che poi è di per sé già un pleonasmo: è chiaro che per animo si intenda quello umano perché noi occidentali consideriamo che solo gli esseri umani abbiano un animo. Penso a quelli che dicono “perdersi d’animo”. Sorseggio la mia birra. Sento in sottofondo una canzone che va di moda, ma non so chi la canta. La barista si mette a canticchiare anche lei. È intonata.  La musica viene a tratti scalfita dal rumore delle slot machine. A questo mondo si è certi solo della morte, come si suol dire comunemente.  Forse è solo un alter ego momentaneo. Di certo non è un sosia, un sembiante. È più bello e più alto di me. Ha le spalle più larghe. Di sicuro è un tipo che piace alle donne, per quanto la mia sia una constatazione a occhio e croce, dato che non me ne intendo di bellezza maschile, anche se so grossomodo quali sono i canoni.   Continuo a sorseggiare la birra, come se niente fosse. Carezzo con l’indice della mano sinistra l’orlo del bicchiere. Sorseggio la birra. Il tizio ha finito di telefonare.  Ho finito la birra. Metto il bicchiere e la bottiglia sul banco. La barista gentile mi ringrazia. Le chiedo quanto costa un bicchiere di acqua gassata perché ho solo 90 centesimi. Mi risponde che è gratis. La ringrazio di cuore. La saluto e le auguro buona giornata. Lei fa altrettanto. Fuori è una bella giornata e io mi dico, mi ripeto che in tutta onestà sono più le cose che ci accomunano di quelle che ci dividono, anche se ognuno ha la sua storia, ha la sua vita. Mi ripeto come un mantra che tutti gli animi sono nel profondo uguali. Lo so che esperti della psiche riderebbero se sentissero proferire una simile sciocchezza, ma talvolta per andare avanti abbiamo anche bisogno di piccole innocue, innocenti bugie come questa mia. In fondo ognuno finisce per credere alle sue bugie perché tutti ne abbiamo bisogno. Mi incammino  verso casa. Il sole è alto nel cielo limpido.