“Le Follie del Cuore” di Horion Enky si pone come una confessione intima, un’ardua battaglia tra la razionalità e gli impulsi incontrollabili del cuore. In questa poesia, l’autore ci presenta una lotta interna, dove il cuore e la mente sono in un costante scontro, producendo un tumulto che risuona “come un frastuono” nell’animo del poeta.

Enky tocca il delicato tema dell’addio, il quale è descritto non solo come un evento doloroso, ma anche come un assalto alla quiete dell’essere. La fine di un rapporto, le parole non mantenute e le promesse infrante sono i veri antagonisti in questa narrazaione poetica, lasciando il parlante lirico in uno stato di solitudine “lusinghiera” ma al contempo crudele.

Il poeta esplora l’amarezza e il paradosso dell’amore e dell’abbandono: il desiderio di dimenticare per non soffrire e il contrasto con il bisogno umano di amare e di sentirsi vivo. C’è una vulnerabilità cruda nell’immagine di scoprirsi “nudo, affranto e senza gioia,” una rappresentazione dell’essere umano privato del conforto e del calore di un altro cuore.

La chiusura della poesia, con le mani che stringono la “pazzia” e il sogno di un amore “vissuto e andato via”, è una potente metafora del desiderio irrisolto e della presa che i ricordi hanno sulla nostra realtà quotidiana. È la follia del cuore che diventa un nodo centrale, un’ossessione che può sia alimentare la nostra esistenza sia condurci verso il baratro della disperazione.

“Le Follie del Cuore” è un poema che cattura l’essenza di quella sensazione umana universale di perdita e nostalgia. Enky, con versi carichi di emozione e introspezione, costringe il lettore a riflettere sulla propria vulnerabilità e sulle infinite complessità dell’amore e del dolore. Un’opera che merita di essere letta con il cuore aperto e la mente attenta alle profondità nascoste tra le sue righe.

LE FOLLIE DEL CUORE
Cuore cos’è questa follia,
che ti fermi e mi fai soffrire.
In silenzio t’ascolto,
un frastuono risuona nella mia mente.
Stupidi pensieri mi rubano alla quiete,
non capisco, non mi riconosco,
incerotto le ferite.
Che male fa un addio.
Forse le parole son vil promesse.
Accetto la lusinghiera solitudine,
croce fatta di infime spine
che pungon i ricordi.
Scordarti dovrei,
per non essere infelice,
bere dal calice della vendetta,
amare diventa l’esistenza.
Così mi scoprirei nudo,
affranto e senza gioia,
caparbia realtà ossigeni i dubbi,
tra le mani stringo la pazzia,
un sogno vissuto e andato via.
Horion Enky