Versione approfondita, per chi ha tempo

Odiando gli uomini non facciamo male a nessuno”

Libro di un’autrice francese che verrà tradotto in 17 lingue, diventato un vero e proprio caso editoriale, “Odio gli uomini” di Pauline Harmange ha fatto discutere molto negli ultimi giorni. La prima tiratura del libro prevedeva 450 copie circa, ma la reazione scatenata in seguito all’uscita da parte del ministero delle pari opportunità francese ha contribuito alla crescita esponenziale delle vendite, tanto che i diritti dell’opera sono stati messi all’asta e poi ceduti a editori con tasche più ampie. Il consigliere Ralph Zurmély ha abboccato all’amo e ha mandato una mail alla piccola e modesta casa editrice francese senza scopo di lucro minacciando una diffida e il ritiro del libro dal mercato. Questa è stata la miccia che ha fatto esplodere il caso in tutta Europa. Così il ‘povero’ consigliere ha giocato la carta sbagliata, accendendo il riflettore su un libro che altrimenti avrebbe sì venduto qualche copia ma non avrebbe avuto (forse) un impatto mediatico così risonante.

Breve premessa

Si è dibattuto molto. C’è chi lo ha definitivo “il manifesto del femminismo tossico”, chi lo ha definito “una geniale trovata di marketing” e testate online tra cui The Vision l’hanno addirittura elogiato, invitando tutti a prenderlo come esempio del pensiero femminista corrente. Sui social, soprattutto su Twitter e Instagram, il libro è stato sia aspramente criticato da uomini e donne sia promosso e sponsorizzato da personalità di grande seguito. Molti lo hanno recensito e lo hanno commentato a lungo, per cui sarà molto difficile per me non ripetere qualcosa di già sentito in precedenza. Una video-recensione che consiglio vivamente è quella di Bugalalla, streamer che tratta temi seri (ma non solo) alternando momenti di leggerezza e goliardia a momenti di serie e pura riflessione sul tema.

Titolo e primo capitolo: Provocazione?

Partiamo dal titolo: “Odio gli uomini”. Molti hanno provato a difenderlo dicendo: è provocatorio. Magari lo è davvero, mi sono detto. Un libro non si giudica né dalla copertina né dal titolo, giusto? Come tutti sappiamo, la provocazione può essere un’asserzione dal tono sferzante, con una scelta di parole pungenti da parte dell’interlocutore per attirare l’attenzione di chi ascolta per lanciare un messaggio. La provocazione nasce per ottenere una reazione verbale o fisica. Durante un dibattito, si usa per far scoprire il fianco dell’altro, per far sì che abbassi le difese e che il controllo sfugga. In questo caso, “odio gli uomini” è – secondo chi difende questa tesi – un modo per attirare l’attenzione per lanciare un messaggio positivo. Lo è davvero? Scopriamolo.

Nelle prime pagine del libro, Pauline Harmange si dichiara misandra. Sostiene che accusare di misandria una donna voglia dire silenziarla, mettere a tacere la sua rabbia, a volte violenta ma sempre legittima (parole sue), verso gli oppressori. Odiare l’oppressore è legittimo e lo è anche usare la violenza per difendere la propria incolumità. Continua dicendo che equiparare la misandria alla misoginia sia sbagliato, che sia un tentativo di nascondere la polvere sotto al tappeto, perché la misandria non è sessismo, dato che la donna non ha mai oppresso l’uomo e non lo ha mai discriminato. Ma misandria, se le parole hanno ancora un significato, vuol dire avere avversione, ostilità, odio nei confronti del genere maschile. Questa è la prima – delle tante, purtroppo per lei – contraddizioni. E siamo solo alle prime due pagine.
Poco dopo afferma che la misandria non esiste (è misandra o non lo è? Come fa a essere una cosa che non esiste?). Non esiste perché non è mai stato creato un sistema organizzato volto a discriminare gli uomini. Ma qualora esistesse, dice lei, e se fosse salutare?
Qualche riga più tardi, il suo primo suicidio logico. Cito: “Dai, mi butto, ve lo confesso: io odio gli uomini. Ma proprio tutti? Sì, tutti. A priori ne ho un’opinione molto bassa. È strano perché in apparenza non sarei minimamente legittimata a odiare gli uomini. Ho perfino deciso di sposarne uno e, a oggi, mi tocca ammettere che lo amo molto. Ma ciò non mi impedisce di chiedermi perché gli uomini siano come sono. Vale a dire degli esseri violenti, egoisti, pigri e vigliacchi”. Basta così che divento rosso.

Il titolo appare ancora come una provocazione?

Qualcuno diceva cose simili. E fragore di applausi.

Qualcuno, leggendo le parole che sto per scrivere dell’autrice, ha provato un giochetto logico. Ha provato a sostituire i termini “misandria” con “razzismo”, “uomini” con “neri” o “ebrei”. Che siate d’accordo con questo giochetto, vi invito a osservare la vostra reazione e a leggere le parole due volte: prima nel senso corretto e poi sostituendo i termini.

“Per me la misandria è una via d’uscita. Un modo di esistere fuori dal sentiero battuto, di dire no con ogni respiro. Odiare gli uomini, in quanto gruppo sociale e spesso in quanto individui, mi riempie di gioia – e non solo perché sono una vecchia strega gattara. Se diventassimo tutte misandre potremmo generare un gran pandemonio. Ci renderemmo conto (e forse sulle prime sarebbe un po’ doloroso) che in realtà non abbiamo bisogno degli uomini. E potremmo, credo, sprigionare un potere inaspettato: librandoci lontano, più alto degli sguardi degli uomini e delle esigenze maschili, scopriremmo il potere di rivelarci noi stesse”.

Non dipendere da un uomo per costruire se stesse è una cosa sacrosanta. Nessun uomo dovrebbe imporre a una donna come deve comportarsi, chi deve essere, quali scelte deve compiere. Ma siamo sicuri che l’odio incondizionato verso l’intero gruppo sociale e verso i singoli individui sia la strada migliore? Uomini e donne non dovrebbero coesistere, collaborare, produrre, creare, progettare la società del futuro? Come sarebbe possibile avere una società sana se ogni donna fosse misandrica? Soprattutto, tra queste righe si evince una violenza verbale, un’istigazione all’odio, un invito a una rivoluzione tutt’altro che produttiva e con solidi principi di eguaglianza. È questo il femminismo? Credo di no. Questa è solo l’ala più ideologicamente radicata e collerica.

Non c’è spazio per te

Sia chiaro: quando Pauline Harmange dichiara di essere misandra, si riferisce solo agli uomini maschi-etero-cis, ovvero a quella categoria di uomini che si avvale volontariamente o meno dei privilegi della società e che non li mette in discussione. Nel secondo capitolo, l’autrice ci ricorda che per l’uomo è arrivato il momento di tacere. Infatti, “Il minimo che possa fare un uomo di fronte a una donna che avanza una tesi misandrica è ascoltare in silenzio.”. Mi trovo d’accordo: quando una donna dichiara con serenità di odiare distintamente gli uomini, verrebbe la voglia di fare come al bancone del bar incontri il vecchietto nostalgico del fascismo che ti dice che tutti ‘sti neri ai tempi li avrebbero fatto la doccia. Ascolti, finisci il tuo caffè in silenzio e te ne vai senza salutare. Ragionare con i saccenti è una perdita di tempo.

Secondo Pauline, l’uomo non può sventolare la bandiera femminista. Non esistono uomini davvero femministi. Se ci sono, occupano gli spazi femminili, rubano la scena, ingombrano. La donna deve combattere da sola questa battaglia. Non c’è spazio per l’uomo. Deve per forza esserci? Bene, che stia in fondo.

Noi facciamo tutto. E loro?

Nel terzo capitolo, quello dedicato alla donna e all’uomo come coppia, Pauline Harmange elogia le donne e demolisce – ovviamente – gli uomini, con una generalizzazione tale da farci dubitare che ci stia prendendo per i fondelli. Secondo lei, non solo si prendono più cura di loro stesse e del loro corpo, ma si preoccupano con più coinvolgimento emotivo di portare avanti la relazione. “Andiamo dallo psicologo, leggiamo libri per imparare a organizzarci, a essere zen, a godere, condividiamo i nostri stati d’animo, apriamo il dialogo, facciamo sport e diete, ci sottoponiamo a restyling, coaching, interventi di chirurgia estetica, cambiamo lavoro, ci facciamo in quattro. […].. Con il mio tappetino da yoga, la mia app di meditazione, le mie due terapie, i miei libri sulla comunicazione non violenta e il mio relativo controllo delle emozioni a volte strabordanti mi sento un po’ un cliché.”.

Malgrado lo stigma sociale riguardo allo psicologo sia ancora presente in Italia, per fortuna molti uomini stanno cominciando a chiedere supporto psicologico per se stessi e per le terapie di coppia. “A essere zen” mi ha strappato una risata. Appoggiare lo stereotipo dell’uomo rude e bruto che non condivide le emozioni e che non apre il dialogo suona come un’argomentazione insipida. Dire che la donna è emozione e l’uomo è logica è puro assolutismo. L’autrice è sicura di aver letto attentamente i libri sulla comunicazione non violenta o di aver ascoltato ciò che ha da dire lo psicologo durante le sedute? Di uomini che si tengono in forma in palestra ne è pieno il mondo.

La questione del linguaggio: “not all men”

Alcune femministe oggi si lamentano degli uomini che rigettano le accuse rivolte loro con la risposta “non tutti gli uomini”. Secondo queste femministe, quando si dice “gli uomini” è palese che si intenda dire gli uomini che opprimono, i maschilisti, i sessisti, ecc. È vero che se l’oggetto del tema sono i maschilisti, ecc. è inutile precisare che solo ed esclusivamente quelle categorie sono prese in considerazione nel discorso, perché si dà per scontato che chi ascolta sappia di cosa si sta parlando. Ma questo meccanismo funziona se il messaggio non è lanciato in modo sintetico e costante, senza tenere in considerazione la forza delle parole. Perché questo è sì un tema sociale, ma è anche un tema politico. Se Salvini urla a una piazza che gli africani sono criminali perché stuprano, spacciano e uccidono, gli diamo – giustamente – del razzista Perché? Perché la sua opinione viene esposta con una base di generalizzazione. Se Salvini dicesse che alcuni africani stuprano, spacciano e uccidono direbbe il vero. Come è vero che ci sono italiani che stuprano, spacciano e uccidono. Non è questione di provenienza geografica, è una questione umana. Diamo l’etichetta “razzista” a Salvini non solo per il linguaggio che adopera, ma perché le sue argomentazioni si poggiano su basi stereotipiche, perché fa di tutta l’erba un fascio.

Questo è l’errore che fanno alcune femministe, tra cui Pauline Harmange: “Non è necessario che arriviate a dichiararvi misandre per essere ricoperte di rimproveri al vostro modo di criticare il genere maschile. Vi basterà generalizzare, per quanto giustificato possa sembrarvi in molti casi, dicendo che «gli uomini» invece che «certi uomini» ed è fatta: congratulazioni, siete misandre! E se siete misandre allora siete migliori dei misogini. Nell’immaginario collettivo, misandria e misoginia sono due facce della stessa medaglia, quella del sessismo”. Identifico la mia opinione con quella descritta dall’immaginario collettivo. Nessuno vieta all’africano di provare rabbia nei confronti dell’oppressore che viola senza diritto la proprietà altrui, che preleva ricchezze senza chiedere alcun permesso. Odiare gli europei perché nel XIX secolo hanno colonizzato molti territori africani è stupido, se sei nel 2021. Odiare gli africani perché una volta un nigeriano ti ha rubato il portafogli è razzista. Una ragazza di sedici anni che odia un coetaneo in quanto maschio e nel 1500 davano la caccia alle donne per bruciarle vive in quanto streghe è assurdo.
Se l’autrice avesse scritto questo libro esprimendo il suo disprezzo verso gli oppressori e non verso l’intero gruppo sociale di genere maschile non sarebbe stata tacciata di misandria.
Come diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa: le parole sono importanti!

Contraddizione bonus: A pagina 46 si diverte a dire che gli uomini non accettano si essere definiti sessisti e per difendersi da questa accusa rispondono che a casa loro hanno una moglie, due figlie, delle gatte. L’autrice dice, giustamente, che non basta circondarsi di donne per non essere sessisti. Peccato che nove pagine prima dica “non è vero che li odiamo, perché abbiamo dei compagni, dei padri, dei fratelli, dei colleghi e degli amici a cui vogliamo bene”. Due pesi e due misure?

L’eterosessualità è una trappola

“L’imposizione dell’eterosessualità è talmente perversa che, non contenta di spingerci ad avere soltanto relazioni con gli uomini, ci obbliga a imbarcarci in questi rapporti anche quando non abbiamo nessuna ragione per farlo”. Questa frase si traveste da specifica, ma se la si spoglia è ambigua, generica. Non si riesce a capire come interpretarla. Primo, l’eterosessualità non è una scelta. Lei, in quanto bisessuale, dovrebbe saperlo (o ha scelto di essere bisessuale?, dubito). Vuole dire che la donna, data l’attrazione per l’uomo, è fatalmente destinata ad avere relazioni con gli uomini? Questa è la trappola? Un complimento davvero originale. Sembra di sentire le frasi trite e ritrite dei comici generalisti che dicono che il matrimonio sia una gabbia. Assai copiose risa. Scrivendo “quando non abbiamo nessuna ragione” intende dire che alcune donne si fidanzano per non rimanere sole, per non essere chiamate “zitelle”? Questo sarebbe interessante. Una bella critica allo stigma sociale. Critica che, a essere onesti, ogni tanto esprime con barlumi di lucidità disarmante. Lo vedremo fra poco.

Anche l’orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno.

Per tutta la durata della lettura, durata complessivamente quattro ore, mi sono più volte interrogato su quali fossero le note positive del libro, quali fossero le pagine che avessero fatto dire ai giornali e ai lettori che questo non fosse un manifesto del femminismo tossico. Solo nella seconda metà del libro si possono trovare sparuti momenti di ragionevolezza.

A pagina 72 si lascia andare a un monito verso le donne, invitandole ad accettarsi per quello che sono, a non lasciare che lo stereotipo di genere condizioni il loro modo di essere: “Dico soltanto che è giunto il momento di non sentirci più in colpa per non essere delle Wonder Woman oltre che delle sante, che è giunto il momento di concedere a noi stesse di essere umane e avere qualche difetto”. Tralascio la frase successiva, è un altro commento generalista sugli standard maschili.
“Quando le donne permettono a se stesse di considerare il fatto di essere single non come una punizione, ma come un’esperienza di vita qualsiasi, con i suoi difetti ma anche i suoi vantaggi, (ri)scoprono di non aver bisogno di un uomo, di uno qualsiasi, nelle loro vite. Si nutrono della propria autonomia e della propria libertà. E quando trovano un partner non è perché gliene serviva uno ma perché hanno davanti a sé una persona con cui abbiano davvero voglia di impegnarsi, nella prospettiva di una mutua realizzazione. E non perché stare da sola è una prospettiva terrificante e il signore ha bisogno di qualcuno che gli lavi i calzini e gli gestisca gli appuntamenti.”; prosegue: “Sperimentiamo la gioia di vivere grazie a noi stesse e per noi stesse, e troviamo le ragioni giuste per impegnarci in una relazione, sottraendoci al meccanismo automatico che ci fa temere di stare da sole. […] Impariamo a tracciare i nostri limiti, che cosa ci sembra accettabile e cosa no, e impariamo a farli rispettare”. Sembra che qui Pauline abbia capito quello che stava dicendo lo psicologo o quello che recitavano i libri sulla comunicazione efficace. Perché non scrivere un libro con questi concetti? Questo paragrafo è sacrosanto e penso che chiunque non sia un cavernicolo lo appoggi pienamente. L’emancipazione della donna è più che legittima. Ma perché utilizzare la tossica leva dell’odio per diventare se stessi? Ricorda un modo di affrontare i problemi legati all’identità tipicamente adolescenziali.

Mi sento persino un idiota a dirlo, ma a quanto pare è necessario: non serve odiare il prossimo per capire chi sei.

Sorellanza

Nel capitolo dedicato al concetto di sorellanza, l’intenzione è buona. Pauline Harmange invita le donne a essere più unite, a prestare ascolto alle altre donne (perché tanto gli uomini non lo fanno, e se lo fanno non ne sono capaci) e di marciare insieme verso l’emancipazione e la realizzazione di sé. Non si può essere in disaccordo. Nonostante il femminismo da anni si sia evoluto e diramato in varie correnti di pensiero, alcune donne fanno ancora fatica a spalleggiarsi. Spesso, a essere le più testarde sono le donne legate ciecamente all’ideologia e all’interpretazione rigida di essa. Il femminismo tossico, come quello rappresentato in questo libro, come potete aver letto, non è mosso da cattive intenzioni. Come molte ideologie, cerca di perseguire la via del bene. Se andassimo oggi a domandare a una femminista radicale se il suo attivismo politico e sociale sia giusto, ti dirà di sì, e lo farà con fierezza, perché è convinta di essere dalla parte del bene. Ne è convinta perché attorno a lei ci sono sì oppositori pronti a darle torto (i nemici, i maschilisti, i sessisti, le donne vittime del patriarcato) ma ci saranno molte persone, donne e uomini, che applaudono. Ma come la storia ci ha insegnato, se una piazza applaude non vuol dire che chi parla abbia ragione.

Questo libro è un esempio di come l’ideologia, quando si radica nell’essere umano, possa diventare tossica.

Conclusioni

Dal punto di vista del marketing, il libro è un successo. Titolo “provocatorio”, contenuto che risulta rispecchiare fedelmente le tre parole sulla copertina. Il risultato è quello che si aspettava la casa editrice: tutti ne parlano, nel bene o nel male. Se analizziamo il contenuto più specificamente troviamo un libercolo senza alcuna argomentazione degna di essere definita tale. È un delirio, uno sfogo di una ragazza arrabbiata con gli uomini per quello che rappresentano nella loro parte più difettosa, negativamente istintuale e corrotta. Le sue idee sono una sequela di stereotipi legate al genere e la soluzione che offre per divincolarsi dal problema patriarcale non ha alcun fondamento filosofico, logico, sociale. Non ha alcuna scintilla rivoluzionaria. È il diario di un’adolescente irosa che ha letto Simone De Beauvoir senza capirla.
In questi mesi i temi riguardanti la questione di genere sono molto caldi, frequenti, delicati. Stanno picchiettando sulle crepe già presenti e coperte con la calce. Specie sui social, si vedono molti uomini e donne per la parità che reagiscono a questa deriva femminista, perché quest’ala risulta più rumorosa delle altre in quanto ostile. È la dimostrazione di quanto l’odio generi odio. Anche le donne, femministe di altre correnti, non si sentono rappresentate da questo libro, da questa corrente di pensiero. Il monito è che il linguaggio violento e l’ideologia radicale non prendano piede. Non è d’aiuto a chi si impegna e quotidianamente lotta per la parità di genere, uomini o donne che siano.