Spesso mi dicono che mi chiudo a riccio.
A volte – e chissà quante volte l’ho detto, rispondendo – non ho nulla dentro il mio cervello.

Il vuoto.

Mi fa apparire come se mi fossi chiuso a riccio, nero e lucido che muove i suoi aculei come fossero mille braccia tese ad allontanare chi mi vorrebbe stare accanto.

In fondo penso che ci sono momenti in cui il pescivendolo sotto casa è più ricco di pensieri di me: gli sono arrivate le triglie fresche che profumano di mare, il tonno che ha versato sangue prima di morire, il polipo che ha cercato disperatamente una via di fuga con il terrore negli occhi e ancora brancola cieco dentro la nassa.

Il pescivendolo vorrebbe che tutti i suoi clienti venissero ad ascoltarlo.
(non ci sono pescivendoli sotto casa, anzi non c’è nulla sotto casa, qui a Roma. C’era prima di lasciare la Sicilia, c’era e stava sotto il balcone di quella casa nell’infanzia e nella giovinezza).

Come vedi – avrei dovuto rispondere – oggi sono taciturno perché sogno.
Sogno il mare, il mare vivo di vita della Sicilia.

Ci sono cose di cui posso fare a meno – mi dico – vivo ugualmente, ma tornano nel cuore a tradimento. E allora mi assale la malinconia mentre sento che il sole va tramontando e si porta appresso tutto.
Rimane una sola speranza: quella di vivere il meno peggio possibile.

Che poi è quella che davvero non riesco a realizzare.