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Sognava e piangeva

Doveva solo sognare a 15 anni, sognare di un mondo leggero in cui tutto è perfetto e non provi paura. Ada, invece, di paura ne aveva tanta. Una vita davanti; l’adolescenza ha le sue criticità, ma il resto dovrebbe essere un prato in fiore, perché sei ancora una ragazza che si sta aprendo alla vita.

Ada, invece, si stava chiudendo. Fiore che deve sbocciare, destinato da altri a morire.

Ho ripercorso la sua storia tra mille scartoffie, residuo marginale di una vita trascurabile.

In una di queste, il suo medico scriveva: «Mostra paura e ansia immotivata. Si guarda allo specchio e a volte piange all’improvviso, senza ragione. Riferisce di sentirsi osservata e spiata da qualcuno, specialmente di notte mentre dorme». Carte ormai ingiallite, dalla scrittura nervosa e contratta, che attraverso anamnesi, diagnosi e terapie, pretendono di raccontare la storia di una ragazza.

Ma la storia di una ragazza non può stare in poche pagine compilate di fretta e con superficialità, anche se da un medico. Ma purtroppo quella è rimasta l’unica storia possibile per Ada.

La sua vita era lì, in manicomio, e lì si concluderà dieci anni dopo. Chissà cosa sperava per sé Ada, il principe azzurro o semplicemente di scappare dal mondo a cui il destino l’aveva consegnata.

Una famiglia umile, contadina, di quelle che se non ti spacchi la schiena te ne puoi anche andare.

Tante persone, un solo piatto e molte mani che se ne contendono il contenuto. Ada era l’ultima di otto figli, l’ultima ruota di un carretto vecchio e traballante.

Figlia femmina in una realtà misera, primo ostacolo in una lotta di genere e di classe prima, e di dolore e malattia dopo.

Il parto difficile con il quale venne al mondo, parve presagire il suo infausto destino.

Eppure Ada lo superò con tenacia, la stessa tenacia che non è servita a superare il resto.

Leggo sempre dai referti medici che è andata a scuola fino alla seconda elementare con scarso profitto; un giudizio che già vale un’etichetta e che ti catapulta direttamente nell’emisfero dei disagiati.

Entrò in manicomio a causa di una semplice cefalea, ci pensate! Viveva in uno stato di inappetenza e di apatia, malesseri che oggi sono senza dubbio ricollegati al periodo adolescenziale, ma non in quegli anni. In quegli anni erano disturbi psichici e segnavano una condanna, nel caso di Ada furono una condanna a morte.

Che importa che una ragazzina spaurita, che non ha mai visto la città, piange disperata per far uscire un po’ di quel dolore che ha dentro. La sofferenza in quei luoghi era sempre qualcosa di malsano, non importava né da chi né perché esisteva. Era solo un tarlo nel cervello malato.

Ada per i medici era schizofrenica, e come tale subì quelle arcaiche e brutali terapie seguite dalla prassi medica: il coma insulinico.

L’infermiera le iniettava l’odiosa dose di veleno nelle vene e se dopo un’ora non eri morto, altro ormone; tre ore dopo dal coma indotto si resuscitava come lazzaro, pensando di aver ucciso così il suo male. Ci volevano tante punture di glucosio per scuotere il corpo assopito in quel sonno pesante, ma qualcuno in quel sonno spesso si perdeva. Tra urla, pianti e spasmi incontrollati, il girone della morte non si fermava neanche per qualche danno collaterale.

Ada si risvegliava sempre, con tenacia resisteva; ma voleva tornare a casa e per questo la si giudicò impaziente e piagnucolante; altro macigno che si aggiungeva agli altri che aveva dovuto sopportare: diagnosi «affetta da sindrome dissociativa».

In questo clima di spavento, fatto di odore di piscio e vomito, l’aggressività bussò alla porta di Ada, che la fece entrare. La terapia divenne più aggressiva a sua volta e Ada pian piano si stava spegnendo. Ormai si alimentava a malapena. Ora appariva governabile ai medici, migliorata.

Ma durò poco, perché quel senso di inquietudine in lei si fece ancora sentire, urlando e scalciando.

È così che iniziò anche la piretoterapia. Si aumentava la temperatura corporea fino a indurre crisi compulsive: quella sudorazione doveva espellere tutta la tossicità, in una sorta di esorcismo meccanico del germe della follia.

Alla fine arrivò l’elettroshock per Ada, che avrebbe dovuto solo sognare come gli altri ragazzi della sua età. Invece la sua vita era un pianto, un pianto disperato e un sogno infranto.

Per i medici, era sempre “disaffettiva e soggetta a frequenti crisi impulsive”; il caso era senza speranza, senza possibilità di guarigione.

La vedo ancora legata a un letto Ada, due elettrodi sulla testa, la corrente ad attraversare il suo povero cervello.

Il tempo sa essere crudele, quando a 15 anni entri in una clinica per le malattie nervose e mentali, dove il dolore è sempre qualcosa che non funziona nel cervello, quando a 18 anni resti chiusa nell’infermeria di un manicomio dove la sofferenza è sempre qualcosa che vogliono guarirti con l’elettricità nel cervello.

E in fondo uno stato di tristezza, di amarezza, che pure i medici non poterono fare a meno di evidenziare nei loro freddi verbali. “Evidenzia un’amarezza profonda”, così scrive lo psichiatra e allora pensi che qualcuno ha iniziato a sentire il suo dolore. E invece è solo un’altra formula, per descrivere ancora la sua patologia come un qualcosa di immotivato, sfuggente, confuso.

Il linguaggio freddo però non può celare 4 ore di agonia; senza che nessuno se ne accorgesse, senza che nessuno, ancora una volta, si prendesse carico del suo dolore, Ada, ebbe il tempo necessario per allontanarsi per sempre da quella realtà e dal mondo intero.

Tutti dissero che accorsi sul posto, al richiamo di grida improvvise, ormai la situazione era gravissima: la situazione era irreversibile, inutile ogni soccorso.

Ada muore così, in una notte di inizio primavera, mentre la natura si accingeva a rinascere; per i giornali moriva l’ennesima “pazza” che non si era potuta curare.

Un giudizio, una classificazione crudele per una ragazzina che si portava dentro solo un immenso dolore.

Cinzia Perrone