Condividiamo uno stralcio dell’intervista all’antropologo culturale Marco Aime apparsa sul sito http://artlab.fitzcarraldo.it/it il 28 giugno (link al testo completo: http://artlab.fitzcarraldo.it/it/blog/come-può-la-prospettiva-antropologica-dar-senso-al-dialogo-interculturale-intervista-marco-aime).

«Come può la prospettiva antropologica dar senso al dialogo interculturale?

Intervista a Marco Aime, antropologo culturale

Marco Aime, torinese, insegna antropologia culturale all’Università di Genova. Autore di studi sulle popolazioni alpine e sull’Africa, oratore molto apprezzato e seguito in diversi contesti culturali, ha pubblicato numerosi saggi di studi antropologici. Ha partecipato come relatore all’evento satellite di #ArtLab18 a Genova, portando la sua grande esperienza e dandoci la possibilità di intervistarlo.

Come può la prospettiva antropologica dare senso al lavoro culturale? In base alla sua esperienza, quali sono le caratteristiche antropologiche comuni a diverse culture che costituiscono il nesso su cui innescare processi di dialogo interculturale e di significato comune?

La prospettiva antropologica lavora da sempre sull’idea di cultura e, col passare del tempo e con l’elaborazione di molti antropologi, si è arrivati a definire sempre di più la cultura come un processo e non come un dato. La cultura è qualcosa che noi costruiamo sempre in relazione a qualcun altro. La stessa antropologia, che nel suo nome un po’ presuntuosamente si è definita lo studio dell’uomo, di fatto non studia gli uomini ma in realtà studia quello che c’è tra gli individui, cioè le relazioni, il modello in cui gli individui si relazionano, ed è lì che nasce la cultura, è il modo con cui noi ci rapportiamo. Non a caso una delle ossessioni, lo dico ironicamente, degli antropologi, è il modello di parentela: tutte le società hanno costruito la parentela ma l’hanno fatto in modo diverso, ed è la parentela il primo modo di creare relazioni. Quindi bisogna partire già dall’idea che la cultura di fatto è un processo in continua elaborazione, come fosse un cantiere sempre aperto, in cui si smonta e si rimonta, e a volte si prendono anche pezzi da altri cantieri. Non pensiamo alle culture come dei meccanismi coerenti e organici simili a un orologio, sono piuttosto simili a quei vecchi motori che ogni tanto si inceppavano e poi con due bulloni e due martellate ripartivano. Le culture spesso prendono pezzi da altre culture e poi le rielaborano in modo totalmente autonomo. Questa è un po’ la lezione, cioè che ogni cultura di fatto ha già dentro di sé elementi di altre culture; il problema è che spesso tendiamo a definirla come nostra, come pura, come unica, come originale, quando di fatto siamo il prodotto di centinaia di migliaia di anni di scambi, di idee, di geni di vario ordine.

Mi può fare un esempio di quanto le culture siano più interconnesse di quanto riusciamo a immaginare?».

L’intervista continua qui:

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