DISTILLARE GIOIA DALLA DISPERAZIONE, di Leonardo Migliore

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DISTILLARE GIOIA DALLA DISPERAZIONE
di Leonardo Migliore

Un momento di cupa tristezza m’assale.
Penso ad ali dorate e a un petto robusto che m’abbracciavano.
Non oso guardare all’insù.
Scoprirei un volto incorporeo che rimarrà sempre impresso nella mia mente.
M’affligge molto percepire la tua presenza nella tua assenza.
Sei stato tutto per me, darei la mia esistenza per poterti stringere ancora per un attimo, per posare un bacio caldo sulle tue guance.
Ti ho amato come non ho mai amato nessuno nella mia vita.
Vorrei almeno sognare di te, prenderti per mano e riprendere a crescerti accanto in un mondo che non conosca la parola fine.
Eppure siamo soltanto creature terrene e la morte non fa distinzioni, ci attende come foglie raggricciate d’autunno mulinate dal vento.
Ma tu, gioia mia, non cesserai mai d’esistere fin quando vivrò.
Sei il mio spirito e non ho altro appiglio nei periodi di debolezza. Dovrei forse pregare, impetrare da Dio misericordia.
È nelle tue foto che scorgo scorci d’eternità. Non so se è un peccato confessarlo.
Se è così, tu sei nel Padre Santo e Buono e, addolorato, vegli sulle mie pene mentre mi dimeno nel supplizio di Tantalo.
Quante contraddizioni espongono alle correnti d’aria il pane della mente e i principi immateriali che la metafisica trasforma in anima e credo.
Nei manti volubili del cielo il mio cuore di sasso palpita d’amore. Non è possibile che lo strepito dell’acqua e il soffio intermesso dell’amore stingano il trucco del mio viso, rivelando fra le lacrime modanature marrone con tonalità castagno scuro.
Non fingo, saremo per sempre uniti, il nostro corso non avrà mai termine.
Anche nel nulla continueremo ad amarci e m’accontenterò d’essere null’altro che la vestaglia indosso con la quale giravi per casa, difendendoti dal freddo invernale.
Non so chi possa immaginare tutto questo. Apparisco fra la gente con il sorriso sulle labbra e ritornato negli occhi.
In verità, non sono più felice da quando sei venuto a mancare. Dissimulo bene, ma sono solo un fragile essere umano.
Sai papà, non soffro solo per te.
Penso spesso a tutti i miei amici che ho perso per strada. Con loro l’esistenza è stata ancora più severa. Almeno tu sei arrivato a invecchiare.
Subisco la suggestione delle prime fasi del crepuscolo mattutino nei fiori azzurri molto chiari di una nigella damascena, l’incredibile bellezza di una ninfea aurora che racchiude, con i suoi colori cangianti, la breve favola di carri dorati e figure ditirosate, il vigore della culminazione del Sole nei fiori sgargianti di una dalia, la meraviglia del tramonto nei petali di una cosmea, quando l’orlo infuocato intinge i suoi colori nell’ultima riga di viola che precede l’imbrunire, la sottile malìa delle sere, della Luna e delle farfalle notturne allo schiudersi dei fiori intensamente profumati di una bella di notte. E cedo al sortilegio di un paesaggio che m’appartiene e non riconosco fuor di me, all’incanto di una scena commovente. E mi convinco che le mie albe continuano a susseguirsi perché sono depositario di un importante conato.
Suppongo che sia stato scelto in quanto figlio di una famiglia intemerata devota all’Onnipotente.
Personalmente, dubito di poter vantare meriti particolari e non faccio mistero della scarsa perseveranza nel bene che mi contraddistingue fin da ragazzo.
Mi rincresce essere così. Sovente, mi prefiggo di cambiare per poi constatare con amarezza che i miei propositi non durano a lungo.
Sto guardando una tua foto, vedo che mi adocchi oltre le lenti.
Sul tuo viso affiora un sorriso. In fondo non sei alterato con me, conosci la mia natura, mi vuoi bene e m’hai perdonato.
Sono io a piangere, a non saper perdonare per l’incompiutezza della mia condizione umana.
Per una sola volta vorrei essere all’altezza delle mie capacità, cerco nella tua immagine una possente e definitiva motivazione.
Contemplo sorgenti d’amore sgorganti dalle tue gemme circolari. Il mio volto, inondato di luce, si riflette sull’acqua di un bacile che ne raccoglie il flusso, trasfigurandosi in quello di un bambino che sospinge la sua barchetta di carta. Scopro che la tua mano guida la mia nel dare slancio alla passione del gioco, prendono il largo le nostre emozioni e la nostra fantasia.
In una sequenza di rapide virate e piroette d’insaziabile felicità il nostro trastullo perde quota, inabissandosi lentamente.
Restano le nostre mani agganciate in un inestricabile nodo di speranza.
Il mio futuro sarà gaio, frantumerò i marosi con un corsiero nero, catturerò tutte le opportunità di successo che vita natural durante lambiranno inopinatamente la mia esistenza.
E quando la clessidra segnerà il nostro tempo, alla deriva su una barchetta di carta, piomberemo nel buio dei fondali senza poesia. Il nodo gordiano sarà reciso, ti starò di fronte, m’invaghirò di nuovi sapori e discorrerò d’argomenti che richiedono acume e sottigliezza.
Saremo risorti, andremo incontro l’un l’altro allacciandoci in una stretta affettuosa già accaduta eoni addietro, alloggeremo lungo la primavera e i freschi rigagnoli di un verdeggiante prato, rilucerà l’Infinito colorando il cielo e i poggi seppelliti dalla notte.
La meraviglia ci sbuzzerà dagli occhi perché da lontano vedremo instillare l’amore del buono e del bello sulla nostra piccola Terra.
Dio fonde il metallo realizzando nelle fucine due bacili scintillanti e ruggenti come soffi di mantici. Nel tentativo di beneficare l’intera umanità, per bontà divina i prodotti artigianali della metallurgia riversano il contenuto d’amore donato ai nostri cuori in direzione di un distante puntino. Piovono così coriandoli multicolori e scorrono note musicali in refoli d’armonie cromatiche.
Vorrei intanto prenderti per il ganascino come un bambino dolce e ben pasciuto e non posso neanche aver memoria del fatto che da piccolo mi cambiavi i pannolini.
Quella di un padre è una nobile missione che lo investe della responsabilità di consacrare i suoi pensieri alla famiglia.
Sono stato molto fortunato e felice di aver avuto accanto un uomo onesto, intelligente, generoso e affettuoso che mi ha accompagnato fino all’età adulta.
Abbiamo pianto di gioia assieme su un divano dopo un superlativo 30 e lode, ci siamo baciati e abbracciati calorosamente dopo un aspro litigio. Anche nel dolore attecchiva il nostro smisurato amore.
Negli ultimi tuoi anni di vita gli acciacchi ti hanno costretto a una dura prova.
Hai superato ogni ostacolo con compostezza e nell’ora antelucana di un giorno maledetto, dormiente, ci hai sorpresi, lasciandoci senza patire.
Ricordo l’ansia che mi perseguitava durante le tue sofferenze. E nonostante tutto, teso ad ascoltare le tue argute battute pronunciate sottovoce, gustavo un tripudio di campane festose squillarmi nell’anima. Ero rapito in estasi verso lidi ignoti. Ogni tanto lasciavo che la mia indole di ragazzone giocherellone e burlone prendesse il sopravvento. Ero allegro perché esistevi, benché menomato.
Oggi non mi resta niente, c’è uno spazio di solitudine che esige di essere colmato con il mio impegno letterario.
Non è una pianta che cresce stentatamente, è spontanea volontà.
Non è un risarcimento, è l’essenza stessa della mia vita, quella notte inquieta, quel desiderio appassionato che si traduce in scrittura.
Caro papà, lo abbiamo capito entrambi con evidente ritardo. Durante i tuoi ultimi due giorni su questo misero orbe terracqueo per la prima volta mi hai trattato da pari a pari, invitandomi a liberare ed esprimere il mio respiro lungamente soffocato. Mi sentivo quasi in torto, ti eri denudato della tua autorità. Adesso so che in quei frangenti sei penetrato nel mio cuore più in profondità di chiunque altro. Eri illuminato, camminavi sul limitare per l’aldilà.
M’hai lanciato un messaggio di pentimento e di comprensione.
Ti rivolgo lettere di fuoco per farti sapere che ho sofferto tanto, comprendendo solamente a posteriori il significato recondito delle tue frasi e dei tuoi gesti pregni di grazia e spiritualità. Lessi la dolcezza angelica, la tenerezza e la remissività di chi stava facendo pace con il suo passato. Mai mi balenò, neanche per un momento, il sospetto che in umile santità stessi prendendo congedo da coloro che amavi più di te stesso.
Non avevi niente da rimpiangere e nessuna ragione per essere preso da tardivi rimorsi.
Ti sei donato ai tuoi figli più di quanto abbia mai fatto nessun padre, mi hai amato senza limiti.
In cambio, sono stato solo me stesso, una persona vera e particolarmente sensibile, un figlio con grandi qualità e tante difficoltà, sono stato spirito, mente, carne e sangue difficili da gestire, colui che ha reso la tua esistenza piena di interrogativi.
La mia storia è stata una sciarada. Confesso con schiettezza che in passato anch’io non ci ho capito quasi nulla.
Per fortuna, le ombre dense si sono diradate e i miei ambiziosi obiettivi si sono disvelati. Colgo chiaramente che sono alla mia portata e che dentro di me tanti angeli supplici intercedono per il mio avvenire.
Ho una grande schiera di angeli custodi. Il mio pensiero va spesso a loro. Li ho conosciuti e continuo ad amarli. Uno su tutti: figlio di genitori separati non abbienti, un padre violento e la madre distante, la droga, la fuga dal mondo di un cane che abbaia alla luna in una città straniera, la crudeltà e il cinismo delle istituzioni scolastiche verso un ragazzo i cui occhi buoni muovevano a pietà, la bocciatura immeritata per estirpare la gramigna, lo sprofondare nel mondo ctonio, la comunità, l’amore, la riabilitazione, nuovamente la comunità, il suicidio. Non so quante persone ne onorino la memoria. Nei miei pensieri occupa un posto privilegiato. Loro sanno che ogni bene emana da Dio e che il mio amore è un fiore che effonde un inebriante profumo.
Lascerò un solco d’immenso amore in questo mondo, cercherò in pieno giorno ogni uomo con la lanterna di Diogene. Lo farò attraverso la scrittura.
Richiamando la Divina Commedia (Inferno, Canto VI, v. 115) nella parte che espone la condizione dei dannati dopo il Giudizio universale “quivi trovammo Pluto, il gran nemico.” e facendo riferimento alla rappresentazione mostruosa di Lucifero per il quale è adoperato il nome Dite “«Ecco Dite»…” (Inferno, Canto XXXIV, v. 20), il “Sommo Poeta” sembra avvalorare l’interpretazione di Pluto come figura demoniaca, dal momento che «gran nemico» era anche epiteto di Lucifero. Si ritiene che «il gran nemico» possa essere un’allusione che individua nella brama di ricchezze il principale ostacolo al raggiungimento della felicità umana oppure semplicemente un termine usato nell’accezione di diavolo.
È alla gente infelice, a coloro che ostentano beni materiali, facoltà e sentimenti per suscitare attenzione, ammirazione e invidia, a chi vive nel bisogno, a chi non spera più, a chi non ha più lacrime, a chi ha smarrito la condizione di sicurezza e le coordinate della rivelazione e dell’immanenza divina alla base del genere umano, che dedicherò imprescindibilmente il mio interesse.
Nessun ostacolo potrà frapporsi al mio intento. Nella mia disposizione verso l’altro dimora il sogno di papà e dei miei angeli. Non posso rinnegare i miei valori, la mia coscienza e il mio stesso stare al mondo. Sarebbe come privare un ramo della corteccia, un frutto della buccia o del torso, un fiore del gambo, un libro della copertina.
Spargerò ovunque semi sulla terra in profferta d’amore, germoglieranno dappertutto tanto che lo stupore contagerà tutti i contadi. Un canto di lode a Dio si leverà e riempirà gli animi d’ottimismo.
Una mano imponente ispirata dalla “virtù prima” inserirà le sue dita in fessure di luce. Annichilerà la coltre che adombra l’edificio di encomiabili pensieri e sentimenti mistificati e caduti in disuso nell’odierna società.
Grazie papà per avere distillato, come l’essenza dai fiori, gioia dalla disperazione.

_ Foto dal web.