La Gaia Scienza di Gianfranco Isetta nei versi di Gigli a Colazione

https://www.electoradio.com

La neve, la rugiada, la brina. Le nuvole e il vento. E poi le foglie, tante foglie, con le loro “storie umanissime”. Immagini del transeunte e dell’instabilità.

B3F79A45-8172-4647-AB39-513FFC81FEF2-878x1200

Il mondo di Isetta è quello eracliteo del πάντα ῥεῖ, in cui, a rigore, non si dà alcuna reale persistenza, se non quella, anch’essa peraltro illusoria, dei ricordi.

Che pure danno agli eventi una parvenza di “immortalità”, sospendendoli, trasfigurati, in una sorta di limbo extratemporale.

Fatalmente quindi si riproporrebbe il conflitto pirandelliano tra vita e forma, se non fosse che il nostro poeta ha l’accortezza di accantonare l’ossessione – umana, fin troppo umana – di dare un senso fisso e definitivo alla realtà, immobilizzandola in schemi, concetti, rappresentazioni. E di dare, al tempo stesso, un significato all’esistenza.

L’errore – sembra dirci Isetta – è quello protagoreo di ritenere l’uomo misura di tutte le cose. Dell’antropocentrismo, che presume di governare il cosmo, di esserne, se non il dominus, il destinatario privilegiato: il beneficiario.

Il signoraggio dell’uomo sul mondo è ben illustrato dall’episodio biblico di Adamo che impone i nomi alle creature dell’Eden. Il nomoteta imprime il suo marchio alle cose, illudendosi in tal modo di imporre loro un ordine, umano e razionale.

Il nome è garanzia di identità, di persistenza, di riconoscibilità. Senza nomi, sarebbe la deriva o, se vogliamo, il “flusso continuo” dell’élan vital, cieco come la Voluntas schopenhaueriana. È, in altri termini, il trionfo del caso, l’assenza di finalità.

Perché la vita – dice Pirandello – “non conclude”. Perché – puntualizza Montale – “persistenza è solo l’estinzione” e “una storia non dura che nella cenere”.

Solo che Isetta, invece di mettere l’accento sui risvolti negativi della faccenda, ne considera, senza troppi patemi, gli aspetti positivi. O meglio: si attiene all’“ordine delle cose”. La sua è davvero una “gaia scienza”. Le sue foglie, così umane, cadono, si lasciano trasportare dal vento, marciscono anche, ma tornano poi a germogliare, a vivere. Come tutto, come tutti. Magari in altre forme, altrove.

E come esse si lasciano andare in balia del vento, così egli si abbandona, fiducioso e sereno, alla vita, che non ci appartiene, della quale anzi siamo noi ad essere parti. Al fine di attingere tale sovrana levità, occorre rinunciare ad ogni presunzione di superiorità, ad ogni volontà di potenza: mettersi sul piano delle cose, condividerne appieno, toto corde, la creaturalità.
Così facendo, esse si rivelano perfetti specchi nostræ vitæ, nostræ mortis, / nostri status, nostræ sortis. Come per il poeta medievale. Con la differenza che per Isetta non c’è un Dio a presiedere al tutto, talché tutto sembra sottostare agli estri del Caso. E non è dato sapere se ai suoi colpi di dadi sia sottesa una recondita razionalità. Noi, per dirla con Guicciardini, “siamo al buio delle cose”. Ci affacciamo sul mistero. Ogni nostra pretesa di conoscenza s’infrange contro l’imperscrutabilità ultima del reale, la cui nominazione non garantisce alcuna presa essenziale su di esso: nomina nuda tenemus. Di qui la necessità di “liberarci un giorno / dai nomi delle cose”.

In luogo del vacuo e fatuo nominalismo Isetta preferisce la contemplazione, vale a dire uno sguardo, tra disincantato e visionario, e in luogo dell’intelligenza analitica, che resta alla superficie della realtà, opta bergsonianamente per l’intuizione ovvero “la simpatia per la quale ci trasportiamo all’interno di un oggetto”.

Gli occhi sono testimoni attendibili “come rami bianchi protesi / a scrutare ogni transito di nuvola / a cercarne il motivo, l’essenza della forma, / il gesto del mattino”. Sì, perché le cose che si avvicendano al nostro sguardo hanno una loro peculiare gestualità, una loro istintiva “intenzione”; anzi, “gesto” e “intenzione” sono due parole-chiavi di questa silloge.

E la fisica che la sostanzia è dichiaratamente lucreziana: c’è il vuoto, ci sono degli atomi in movimento e c’è un clinamen che ne determina di volta in volta le aggregazioni e le disgregazioni, ad infinitum. Tutto si svolge, senza soluzione di continuità, davanti ai nostri occhi e davveroomnis mundi creatura / quasi liber et pictura / nobis est in speculum.

Della fabula che si dipana dinanzi e intorno a noi anche noi facciamo parte: è un destino comune. La parabola della foglia è la nostra parabola. Di qui l’empatia con cui Isetta segue le vicende della natura che ci circonda. E la poesia è tutta nel complice e amoroso guardare le cose che incessantemente escono dal nulla e nel nulla sprofondano, senza averne consapevolezza alcuna: “ci sono cose / che non sanno d’esserci. / Ma stanno là / con qualche impertinenza / a colmare spazi vuoti”.

Questa è la vita e forse non ha senso chiedersi (chiederne?) il perché. Il messaggio che esse trasmettono al limite non ha bisogno di parole.

Parlano l’evidenza, il silenzio stesso: “Un silenzio risplende / sulle labbra del mondo”.

Il linguaggio di Isetta non ambisce dunque a imprimere sulle cose il proprio demiurgico sigillo. Ma, con sovrana leggerezza e discrezione, mira semplicemente a indicare, a suggerire le traiettorie dei fenomeni, assecondandone, appunto, i “gesti” e le “intenzioni”.

Egli ama “le storie appese / ai rimbalzi del cielo” e sa bene che la parola nella sua nuda denotatività è spuntata, inetta a penetrare il mistero. Pertanto egli sceglie di aggirare l’ostacolo, affidandosi agli incanti e agli incantesimi della prosodia, del verso.

Se tra res e verba c’è un punto di contatto, questo sta nel ritmo. La vita è ritmo e ritmo, in fondo, è pure il DNA.
I giochi delle allitterazioni, delle assonanze e delle consonanze, ma anche quello, più cauto e talora mimetizzato, delle rime garantiscono ai settenari e agli endecasillabi – che, pur con qualche eccezione, costituiscono il tessuto di fondo di queste liriche – esiti di grazia suprema.

O di “follia felice”, per dirla con le parole dell’autore. Come se davvero la poesia venisse “da un cielo / che ci sfiora e ci colma”. Come se la parola, con suasivo “àpriti sesamo”, ci introducesse in quel vuoto dove gli atomi in perenne movimento s’incontrano per rinnovare la fantasmagoria della vita.

Ed è chiaro allora che il vuoto o il nulla di Isetta ha ben poco in comune con quello dei nichilisti: esso è piuttosto “il grembo originario, non razionalizzabile, da cui vengono tutte le cose” (Gioanola), il luogo-non luogo in cui si annidano “i semi del possibile” (Montale). Compresi i “gigli” che il poeta, con catulliana verve, si premura di offrirci. A colazione.

Gianfranco Isetta, Gigli a colazione, puntoacapo, Pasturana 2017